Rapida e indolore, quasi non ci fosse neanche stata, la campagna elettorale a Genova si era chiusa la scorsa settimana con una certezza: la rielezione del sindaco uscente, Marco Bucci. La conferma venuta poi dalle urne non ha aggiunto molto a un quadro politico statico, in buona parte già delineato, in cui ha giocato come componente decisiva la ricostruzione del ponte Morandi, abilmente capitalizzata dal primo cittadino – a lungo incensato a livello locale, come a livello nazionale – per avere messo in opera il mai chiaramente definito “modello Genova”.
Bucci, vestendo ancora una volta per l’occasione i panni del “grande costruttore”, nelle prime dichiarazioni rilasciate a caldo ha celebrato il successo, mettendo l’accento sul suo ambizioso programma. L’intento sarebbe “trasformare Genova in una grande metropoli internazionale”, principalmente attraverso un sistema di grandi opere, da quelle molto discusse, che dovrebbero interessare la diga foranea e il porto, fino al rinnovamento delle infrastrutture cittadine, del sistema dei trasporti e a non meglio individuati interventi di “manutenzione” della città, per cui dovrebbe essere disponibile quasi un miliardo di euro. Una vertiginosa bulimia del “fare”, dunque, ossessivamente riproposta negli interventi pubblici degli ultimi mesi, che è stata premiata con oltre il 55% dei consensi.
Lontano, rimasto sempre remoto, mai veramente in lizza, lo sfidante Ariel Dello Strologo, che correva per il Pd e il Movimento 5 Stelle, più un paio di liste civiche, si è attestato sul 38%. I quasi venti punti di distacco parlano chiaro: non c’è stata storia, non si tratta di una semplice sconfitta, ma di una vera e propria débâcle. Il candidato della sinistra non ha praticamente fatto campagna elettorale. Rare le sue apparizioni pubbliche, praticamente assenti i momenti di confronto con lo schieramento rivale. Osservazioni critiche generali e sfumate nei confronti dell’avversario, che, anziché di un fair play, hanno dato in città la sensazione di una mancanza di energia, di una colpevole fiacca, di scarsa convinzione.
Eppure, nonostante il risultato appaia schiacciante, le cose sono tutt’altro che in ordine, e l’analisi del voto ci dà alcune informazioni interessanti. Ha votato meno del 45% degli aventi diritto, confermando una tendenza di diserzione dalle urne che non ha precedenti in una città del Nord, e con una tradizione radicata di civismo come quella genovese. Solo vent’anni fa votava alle comunali il 67% degli aventi diritto. Non è ancora disponibile un’analisi dettagliata, ma pare – a un primo sguardo – che Bucci sia stato votato soprattutto dalla “parte attiva” della città, da chi lavora: una fascia d’età che si attesta tra i trenta e i quarant’anni, spalleggiata dagli anziani abbienti trincerati nei “quartieri morti”, le sun cities distribuite lungo il mare. A votare a sinistra sono rimasti gli ultrasessantacinquenni, insieme con qualche sparuto consenso giovanile.
Un elettorato che ha ceduto dunque alla seduzione, peraltro per ora puramente fittizia, del rilancio di una Genova potente e attiva, continuamente evocata dal sindaco, oltre che proteso alla difesa dei propri interessi economici e del proprio status di occupati. Molto ampio l’astensionismo tra i più giovani, la cui silenziosa defezione si manifesta, da anni, non solo con l’assenza dalla scena politica, ma anche con l’emigrazione massiccia dei più qualificati. Al sindaco la scarsa partecipazione al voto importa poco, pare che abbia commentato: “È così anche in America”. Quello che veramente gli interessa è la consistenza del sostegno che ha ricevuto. Unico piccolo segnale di vita a sinistra, la presenza, nelle varie liste che sostenevano Dello Strologo, di esponenti del mondo dell’attivismo sociale, di avvocati di strada, di esponenti della Genova solidale, di mediatori culturali.
Nonostante la “visione di futuro” di cui si compiace Bucci, il sogno del ritorno di una Grande Genova che si proietta su di uno scenario internazionale cozza bruscamente, tutti i giorni, con la realtà di una città sempre più isolata, priva di attività produttive degne di rilievo, in cui al mattino l’ultimo treno per Milano parte alle 9, dopo di che bisogna aspettare fino a mezzogiorno e oltre per trovarne un altro. Al di là dello strombazzato “modello Genova”, il quinquennio appena conclusosi è stato pesantemente negativo per la città in termini demografici, occupazionali e di reddito. Il “rilancio” è stato per il momento puramente pubblicitario, fatto di campagne mediatiche mediocri e di manifestazioni che hanno rasentato il kitsch: dai fiorellini di plastica appesi in centro, alle finte piste ciclabili, fino alla grottesca messa in scena della centralissima via Venti Settembre trasformata in una piscina in cui sguazzavano sindaco e presidente della Regione.
Tra le discutibili acquisizioni della “giunta del fare”, spiccano nuovi supermercati, la cementificazione del porticciolo di Nervi, la distribuzione generosa di centinaia di telecamere di sorveglianza: il che non lascia certo ben sperare per gli anni a venire. Progetti analoghi, che vedono trionfare cemento e stravaganza, come quello della cabinovia che dovrebbe collegare la stazione marittima al forte Begato, già si annunciano e sono stati finanziati. Una cosa è certa: nei prossimi anni sulla città pioverà parecchio danaro, e già i comitati d’affari, che hanno sostenuto la giunta, si preparano a spartirselo, poi… sarà quel che sarà.
Alle macerie della sinistra rimane, di questa triste tornata elettorale, la necessità di una riflessione: sui propri limiti, sull’astensionismo, sulla fuga dei giovani, ma anche sulle realtà di base, sui comitati, sull’associazionismo, che continuano a esistere e a tenere insieme sempre più faticosamente una città che si sfrangia, si divide, e in cui chi è al potere sa bene di chi deve fare gli interessi. In un contesto in cui gli avversari hanno le idee molto chiare sul da farsi, la politica di opposizione deve terminare la sua traversata del deserto, essere in grado di esercitare un controllo e una critica sul modo in cui verranno spesi i milioni che arriveranno, e anche, quando necessario, tornare a mordere, pena altri “cento anni di solitudine”, di minoritarismo, di stagnazione e subordinazione.