L’irresolutezza del presidente degli Stati Uniti su questioni epocali, quali l’immigrazione e i rapporti con governi non affini – quello di Cuba in primis –, si riflette sull’intero continente americano. Ancor prima che inizi, ne caratterizza – rendendola precaria – la nona Cumbre de las Américas fissata dal 6 al 10 giugno a Los Angeles. È opinione prevalente che, oltre ai convincimenti personali, a generare le esitazioni della sua amministrazione siano la disparità di opinioni, in proposito, tra gli stessi democratici. Preoccupati di non contrariare l’ala meno radicale dell’opposizione repubblicana, che condiziona il Congresso e, pertanto, l’attività legislativa. Nelle capitali latinoamericane la crisi europea provocata dall’aggressione russa all’Ucraina, e le tensioni in Asia per le minacce della Cina a Taiwan, appaiono tuttavia per metà giustificazioni e, per l’altra, pretesti e opportunismi.
Biden ha sorpreso estimatori e critici, tanto interni quanto fuori del partito, mostrandosi in generale, fin dall’inizio del mandato, un anno e mezzo fa, scarsamente interessato a correggere la politica di chiusura praticata da Donald Trump verso l’America latina, in particolare sui temi migratori. Un atteggiamento che ha profondamente deluso la stessa vicepresidente, Kamala Harris, ritenutasi abbandonata dopo aver ricevuto l’incarico di gestire l’urgente e ribollente dossiersull’immigrazione. Così come Andrés Manuel López Obrador – Amlo, come lo chiamano per brevità i messicani –, che dopo aver tentato in ogni modo (dalla disponibilità al compromesso, all’aperto contrasto) di resistere a Trump, si aspettava di poter arrivare finalmente, con il suo avversario e successore, a un’intesa sull’emigrazione, per lui il più pressante dei problemi.
L’emigrazione è infatti da anni, e lo diverrà sempre più, una vertenza socioeconomica strategica, una vera e propria bomba umana, capace di far deflagrare il pianeta. Le sue frontiere occidentali ne sono la linea nevralgica. Anche tralasciando le questioni di principio, è risibile l’idea che basti blindare le frontiere per tenersene fuori. Gli sconvolgimenti provocati dall’inserimento permanente delle nuove tecnologie nei sistemi produttivi mettono in crisi le società opulente e meglio organizzate. Quelle in ritardo – e di conseguenza più o meno fortemente emarginate, maggiormente esposte a ulteriori conflitti d’ogni specie – ne restano sconvolte a tal punto da generare un esodo inarrestabile delle loro popolazioni più giovani e intraprendenti. Pronte a tutto, nella ricerca spasmodica di sopravvivenza, e lasciando quanti restano sui rispettivi territori in una risacca storica senza precedenti nei tempi moderni.
Lungo i tremila chilometri della frontiera tra Messico e Stati Uniti, dal Pacifico all’Atlantico, è quasi inevitabile imbattersi nelle colonne sempre in movimento dei migranti. Il flusso s’ingrandisce un giorno per assottigliarsi quello seguente: rallenta, si scioglie in tanti rivoli, forma turbolenti accampamenti spontanei, scompare alla vista per riapparire moltiplicato oltre un bosco o sulla sponda del Rio Bravo, di cui cerca i guadi per passare in Texas fino al Golfo del Messico. La sua lingua unificante è stata per decenni lo spagnolo, nella sinfonia dei diversi accenti e lessici idiomatici dei diversi paesi del Sud e soprattutto del Centro America. Ma già prima della pandemia, nel 2018, tra i quasi cinquecentomila profughi deambulanti dalla Baja California fino al Tamaulipas, sono state censite altre quattro lingue, l’eritreo, il congolese, il vietnamita e il georgiano.
Il caos migratorio americano è una babele globale. Sono bastati questi mesi di guerra, perché vi si aggiungessero ventiduemila tra ucraini e russi di varie province della Federazione. Gli Stati Uniti, con i loro giganteschi mercati di lavoro e di consumo divenuti ormai mitici – sebbene a loro volta insidiati da precarizzazione e inflazione –, esercitano sulle masse in espansione dei diseredati d’ogni continente un’attrazione irresistibile. Così come appare non meno irresistibile la loro penetrazione prevalentemente clandestina negli Stati Uniti, malgrado muri, reticolati elettrificati, permanenti e molteplici controlli terrestri e aerei. Un sistema che impiega decine di migliaia di guardie di frontiera, specialisti d’ogni tipo non esclusi innumerevoli agenti dei servizi segreti, dall’Fbi alla Dea, alla Cia. Con programmi speciali che costano alle amministrazioni statali e a quella nazionale miliardi di dollari l’anno.
La gravità della crisi è giunta a un punto tale da spingere quasi tutti i paesi latinoamericani all’aperto dissenso nei confronti degli Stati Uniti. A provocare il cortocircuito è stato il mancato invito di Biden a Cuba, Venezuela e Nicaragua al summitcontinentale di Los Angeles. Malgrado i sia pur controversi e disordinati dialoghi in corso, tra il Dipartimento di Stato e i governi di Cuba e Venezuela, intensificati negli ultimi mesi in seguito alla guerra in Ucraina. Quando Washington si è trovata di fronte all’urgente necessità di trovare alternative alle forniture russe di materie prime, in primo luogo quelle energetiche. Il presidente messicano ha subito reagito, dichiarando che non avrebbe partecipato a una riunione amputata sul nascere dagli stessi organizzatori. Seguito dal presidente boliviano Luis Arce. Argentina e Cile sollecitano a loro volta Biden a non discriminare nessuno.
Forse ancora senza la necessaria chiarezza, l’America latina nel suo complesso percepisce, nondimeno, che la guerra in Ucraina e la reazione occidentale contro la Russia di Putin hanno cambiato i rapporti strategici mondiali, rafforzando il suo potere negoziale nei confronti degli Stati Uniti. I governi dei Paesi maggiori sembrano ritenere questo il momento più favorevole per ottenere una generale revisione dei rapporti interamericani, fino a una sostanziale se non formale abolizione dell’ormai storico ma politicamente sterile blocco commerciale a Cuba. A distinguersi è il Brasile, dove Bolsonaro (che però è indietro a Lula nei sondaggi per le prossime elezioni presidenziali di ottobre), nella speranza di rialimentare la sua consonanza con Donald Trump, fa intendere che, sebbene per opposte ragioni, neppure lui sarà presente a Los Angeles.