Le vie del petrolio, o del gas, sono infinite. Così, mentre l’Europa ha raggiunto faticosamente un accordo sull’embargo dell’oro nero proveniente dalla Russia, il Cremlino sta cercando un interlocutore alternativo: e sembrerebbe averlo trovato nella Nigeria, il gigante dell’Africa centro-occidentale, il Paese più popoloso del continente, primo produttore di petrolio dal Maghreb al Sudafrica, sesto in ambito Opec, decimo a livello mondiale, e con una importante disponibilità di gas. È del tutto evidente che – anche dopo la fine della guerra – i rapporti tra Russia ed Europa non saranno più gli stessi. Dunque, se il vecchio continente deve ridurre al massimo la dipendenza energetica dalla Russia, quest’ultima deve trovare altre strade per restare protagonista in questo complicato quanto vitale comparto economico.
Ecco allora l’opzione nigeriana che riguarda un faraonico progetto, un gasdotto lungo 5600 chilometri, la cui costruzione potrebbe essere un affare sia per Mosca sia per Abuja. Ricordiamo che la stessa Nigeria era diventata – e lo è tuttora – una possibile alternativa per Bruxelles, che potrebbe importare importanti quantità di gas naturale liquefatto, di cui il Paese africano è appunto un grande produttore. Fra un anno, i lavori per il progetto potrebbero cominciare e i tempi sarebbero brevi, come ha annunciato il premier nigeriano, Muhammadu Buhari, il cui mandato scade nel maggio del 2023, in occasione dell’appuntamento elettorale. Ma qua arriva lo sgambetto russo. Mosca sarebbe pronta a dare una mano, ovvero a contribuire economicamente, alla costruzione di questa enorme struttura – di cui già si parlava nel 2016, e che dovrebbe portare il gas fino al Marocco, a due passi dalla Spagna. Per l’Europa, il prodotto sarebbe lì a portata di mano, in un quadro in cui l’Italia, per esempio, è ben piazzata, visto che nel Paese africano l’Eni ha il 10,4% delle quote di un maxi-impianto di gas naturale liquefatto.
Come dicevamo, però, le cose potrebbero andare in un’altra direzione: la Nigeria esporterebbe la materia prima in Europa, ma, visto che la struttura sarà finanziata e gestita dai russi, sarà con loro che si dovrà fare i conti. Una mossa che, inoltre, consentirebbe al Cremlino di ridurre o annullare l’impatto delle sanzioni europee. Insomma, l’intesa tra il Paese africano e il gigante euroasiatico metterebbe, nel futuro, in serio imbarazzo l’Europa, che in quell’area sarebbe costretta di nuovo a confrontarsi con la Russia.
L’Unione europea, Italia compresa, si sta muovendo a trecentosessanta gradi per cercare un’alternativa, approfittando della disponibilità di Algeria, Angola, Congo ed Egitto, con i quali sono già stati firmati dei contratti. Ma – allo stesso modo dei cinesi – la Russia è ormai penetrata nell’Africa centrale e nel Sahel, sostituendosi di fatto alle ex potenze coloniali. I russi sono già presenti militarmente con il gruppo Wagner – mercenari controllati dal ministero della Difesa (vedi qui) –, e nel Mali stanno fronteggiando, in sostituzione dei francesi, le milizie jihadiste.
Ma all’uso della forza, in determinate situazioni, i russi vogliono ora affiancare una presenza economica di aiuto nella costruzione di infrastrutture, di cui proprio un Paese come la Nigeria è carente. Essa conta quasi 220 milioni di abitanti, e deve misurarsi con almeno un 40% della popolazione che vive in stato di povertà, del quale solo il 4% gode di un sostegno economico. Cifra destinata ad aumentare, entro l’anno in corso, a causa della pandemia. Come in altri casi – vedi, pur con tutte le differenze, il Venezuela –, l’enorme presenza di materie prime non è sufficiente a garantire un benessere a tutti i nigeriani e a tutte le nigeriane, anche perché quote importanti dei proventi delle vendite di petrolio e gas vanno a finire nelle mani di una classe politica corrotta. La pandemia ha reso poi più complicata l’assistenza ai malati, e a nulla sono valse misure quali un supporto alimentare e un bonus di disoccupazione.
La situazione è dunque drammatica. Il quotidiano “Repubblica” ha riportato recentemente i risultati di un lavoro di Human Rights Watch con tanto di testimonianze: “Mangiamo al mattino, e la sera bolliamo un po’ di fiocchi di manioca. Ma non tutte le sere”, dice Margaret Okuomo che lavorava come addetta alle pulizie, ma ha perso il lavoro e vive in una condizione di indigenza. E a nulla è valso un programma varato dal governo per affrontare la situazione, che prevedeva lo stanziamento di sei miliardi di dollari, dei quali solo in minima parte sono arrivati alla popolazione per via di problemi burocratici e amministrativi.
Secondo il Fondo monetario internazionale, “la pandemia ha imposto un pesante tributo all’economia nigeriana, che stava già vivendo un calo del reddito pro capite, alle prese con un’inflazione a due cifre (viaggia dal 12 al 16%)”. In un contesto fatto di disuguaglianze sociali e iniqua distribuzione delle risorse, emerge però il fenomeno delle start-up, ovvero l’avvio di nuove imprese economiche, di solito gestite da giovani, che rappresentano oltre il 50% della popolazione, con un’età compresa tra i 14 e i 30 anni. Stando alla rivista online “Africa”, “il secondo trimestre dell’anno si prospetta positivo per la tecnologia africana: solo ad aprile le start-up tecnologiche di tutto il continente hanno raccolto 430 milioni di dollari di fondi, ovvero 2,5 volte l’importo ottenuto nello stesso periodo nel 2021”. Secondo Ecofin (Consiglio economia e finanza), organismo dell’Unione europea, nel primo trimestre del 2022, “la Nigeria è stata il primo Paese del continente in termini di fondi raccolti, ovvero seicento milioni di dollari. Seguono Kenya, Sudafrica ed Egitto”.
A questo scenario socioeconomico già gravido di problemi, bisogna aggiungere una grave emergenza ambientale, che affligge il Paese africano da decenni, e che vede principalmente sul banco degli imputati le compagnie petrolifere, che non rispettano le minime misure di sicurezza previste. In particolare, l’area più colpita riguarda il delta del Niger, abitata dall’etnia Ogoni, dove violenza e malattie la fanno da padrone. Per Amnesty International “decenni di inquinamento e danni all’ambiente, causati dall’industria del petrolio, hanno portato alla violazione del diritto a un livello di vita decente, inclusi acqua e cibo, del diritto al lavoro e alla salute”.
I giacimenti petroliferi sono stati scoperti nel 1956, poco prima della proclamazione dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. A cominciare immediatamente le trivellazioni, furono le compagnie Royal Dutch Shell e Chevron, le quali, invece di porre i tubi sotto terra come avviene di solito, li hanno collocati in superficie. La mancata manutenzione della struttura ha sempre provocato, e provoca tuttora, continue fuoriuscite di greggio, che alimentano furti di petrolio poi rivenduto al mercato nero, e danni gravissimi all’ambiente e all’economia locale, basata soprattutto sulla pesca, sull’allevamento e sull’agricoltura, attività rese praticamente impossibili. Le vicine foreste di mangrovie sono state distrutte, e l’aria è resa irrespirabile a causa della grande quantità di gas sprigionato, con effetti devastanti sull’effetto serra.
In un’intervista pubblicata dalla testata “Voci globali”, realizzata dal giornalista britannico Freddie Stuart, Ken Henshaw, nigeriano, direttore esecutivo di “We the People”, un’organizzazione non governativa con sede a Port Harcourt, in Nigeria, riassume bene i disastri provocati da un colonialismo che formalmente sarebbe uscito di scena nel 1960, ma che in realtà è tuttora presente, sia pure in altra forma. “L’obiettivo non era quello di concedere questa nuova risorsa (il petrolio, ndr) agli abitanti del luogo – sottolinea Henshaw –, ma di delineare i modi e i mezzi tramite i quali il petrolio potesse essere trasportato fuori dal Paese per contribuire all’economia della Gran Bretagna e dell’Europa. Oggi – continua l’attivista – si usa affermare che, prima di definire qualsiasi progetto di estrazione di risorse, sia necessario ottenere il consenso preventivo della popolazione locale; nella realtà, ciò non si è mai verificato. L’estrazione del petrolio è sempre stata un’imposizione dall’esterno, contro le popolazioni indigene. Per questo motivo, la comunità nigeriana si sente tuttora tagliata fuori dal commercio petrolifero, nonostante le risorse appartengano alla loro terra”.
Dicevamo degli Ogoni, i più vessati da questo sfruttamento. A difenderli fu, alla fine del secolo scorso, lo scrittore e poeta Ken Saro-Wiwa, esso stesso ogone, impiccato dal regime il 10 novembre del 1995 e sepolto in una fossa comune. Oggi, probabilmente, non sarebbe possibile assassinare impunemente ambientalisti e attivisti per i diritti umani, ma lo scenario di fatto è sempre lo stesso. I maggiori introiti che la guerra in Ucraina porterà nelle casse dello Stato, non aiuteranno la popolazione di questo grande Paese a emanciparsi da una situazione di povertà e discriminazione destinata a durare nel tempo.