La forza simbolica del Moro di Bellocchio è tutta in quella via crucis in cui a portare la croce è lui, l’uomo rapito in via Fani, e dietro ci sono la Dc e i suoi leader. Perché, a guardarlo con la distanza che via via il tempo allunga, Aldo Moro si portò dietro davvero il fardello della Democrazia cristiana, infestata di “massoni, mafiosi e criminali”, ma ricca anche di sincere spinte al rinnovamento. Moro lo dice nel suo ultimo discorso, di fronte agli “amici” che non vogliono l’incontro con Berlinguer: dovete accettarlo perché noi non ce la facciamo, da soli, a governare il Paese, e dovete accettare anche di stare in questo partito. Moro è da sempre convinto, infatti, fin dai tempi del centrosinistra, che la rottura dell’unità della Dc avrebbe liberato le pulsioni fascistoidi e reazionarie, che già avevano dato prova di cosa fossero capaci. E che erano state contenute, a durissimo prezzo.
Moro dunque porta sulle spalle la croce – così lo immagina il papa dal suo letto di dolore –, mentre il suo partito guarda silente, immobile, non prendendo mai in considerazione la possibilità di liberarlo. Francesco Cossiga guarda il volantino con la foto del prigioniero, all’inizio del sequestro, ed è turbato: “Moro mi guarda, guarda proprio me”, dice sconvolto. Il ministro dell’Interno sa di essere chiamato in causa direttamente, glielo dicono quelle macchie bianche sulle mani che appaiono sin dal primo momento, e che poi davvero gli faranno diventare d’un colpo bianca la testa: ma lui ha gli “americani” da rassicurare – lo dice e lo ridice. E poi arriva lui, il criminologo Pieczenik, che gli detta le mosse. E Cossiga subisce, non può, non sa o non vuole far altro: subisce il criminologo statunitense mandato da Kissinger, più criminale che criminologo; subisce i massoni piduisti, lo psichiatra con il grembiulino, Ferracuti, che sa che “le Br non vogliono uccidere Moro”, quindi tocca procedere per convincerle in altri modi.
La forza politica del film è nella scelta di sintetizzare la sorte di Moro attorno alla trattativa messa in piedi dal papa, che trova molti soldi (in realtà fu padre Enrico Zucca a darsi da fare per mettere insieme quei venti miliardi, ma il nome non emerge mai dalla letteratura sul caso), senza poterci fare nulla: non si sa perché si esaurì il tentativo della massima autorità della cristianità mondiale: chi lo boicottò? Chi poté interferire in quel modo sulla Santa Sede? Il papa vorrebbe, ma non gli restano che i sensi di colpa: al punto da farsi stringere il cilicio fino a lasciarsi sanguinare la carne. Più di così non può. “Liberatelo senza condizioni”, dice allora alle Br. “E Moro capì quel giorno, con quel discorso, che s’era fatta sera”, scrive Prospero Gallinari nelle sue memorie.
Sta prendendo forma solo oggi questa verità: Moro non fu salvato dal suo partito e le Br vennero sbaragliate, alla ricerca di un interlocutore che Pieczenik, il criminologo, gli sottraeva continuamente, mandandole in confusione, ormai compromesse da chissà quali trattative sui documenti che Moro aveva loro di sicuro consegnato. Bellocchio, superata la versione onirica e assai meno strutturata di Buongiorno notte, si cimenta con una visione a tutto tondo, che colloca il delitto politico più importante del Novecento italiano, insieme con quello di Matteotti, nel suo più profondo significato: di un’azione maturata in un contesto internazionale, del quale le Br pretendono di essere protagoniste senza esserlo affatto. Non furono irriducibili, e non ebbero neanche quella “geometrica potenza” che ha sterilizzato la comprensione dei fatti, lasciandoli in un limbo di bugie e di silenzi.
I sequestratori quasi piatiscono una trattativa: nell’ultima telefonata, prima del 9 maggio, Morucci dice a don Mennini (ma questo non c’è nel film): “Dica alla signora Moro che non riusciamo a trovare quel contatto!”: ma non vogliono che si sappia, e rendono nota la prima lettera a Cossiga che Moro vuole riservata, commettendo il primo dei numerosi errori tattici che porteranno le Br verso un finale crudele e fuori logica, oltre che a tradire il loro prigioniero.
Dunque, tormenti ovunque. Per Andreotti è diverso, a lui basta avere sacrificato il suo gelato per tutto il periodo del sequestro, un fioretto che dà la dimensione del suo penare e anche della sua consapevolezza che gli eventi hanno una loro vita e che l’Italia di più non può: Bellocchio restituisce lo stato del Paese con quella bandiera italiana attorcigliata, Cossiga prova a liberarla con un gesto di rabbia che, tuttavia, non può essere riparatore.
Fin qui la prima parte. L’ottantatreenne regista si è felicemente cimentato con i nuovi mezzi, proponendo un film che è anche una serie televisiva, e che fin qui ha la forza dell’interpretazione attoriale – Fabrizio Gifuni èMoro, dopo aver portato in teatro il Memoriale, se ne libererà a fatica, temiamo –, e di una lettura della vicenda che sposta in avanti la consapevolezza dello spettatore. Vedremo come si articolerà il racconto nella seconda parte. Sappiamo che Moro verrà liberato, la prima parte inizia, infatti, con l’attuazione del Piano Victor, realmente predisposto nel caso della liberazione: l’ostaggio non avrebbe dovuto avere altri contatti se non con i capi Dc. Chissà se fosse stato attuato con un Moro liberato come sarebbe oggi la nostra “povera patria”.