C’è stato un tempo nel quale il Partito democratico non azzeccava (quasi) mai le primarie: se erano di coalizione, gli elettori del cosiddetto centrosinistra premiavano gli outsider, da Nichi Vendola, in Puglia, a Giuliano Pisapia a Milano; se la consultazione era interna, con soltanto i candidati di partito, vinceva quello che appariva più indigesto agli apparati e ai dirigenti nazionali: a Firenze, per esempio, Matteo Renzi (eh, sì, ha giocato la carta del giovane “contestatore”) e, a Roma, Ignazio Marino. Nei rari casi in cui vinceva il candidato “ufficiale” (a Napoli Andrea Cozzolino, in Liguria Raffaella Paita) si materializzavano i fantasmi delle “truppe cammellate”, degli immigrati reclutati al momento per condizionare il voto, delle contestazioni per i presunti brogli elettorali. È finita che anche i più fedeli elettori democratici, e gli appassionati della scimmiottatura della politica all’americana, si sono un po’ disamorati. Alcune delle più recenti consultazioni si sono meritate l’etichetta di “flop”: a Roma e Torino, nel 2021, per esempio, dove però le cose sono andate – per quanto riguarda la scelta del candidato – come dovevano andare nelle previsioni dei vertici.
Se ne riparla oggi perché le primarie sembrano essere state individuate come lo strumento per rianimare la presunta alleanza fra Pd e 5 Stelle. Un patto sempre col fiato corto, segnato da polemiche e diffidenze, che nemmeno i faccia a faccia a pranzo fra Enrico Letta e Giuseppe Conte riescono a stemperare. Appuntamenti ormai periodici e sempre “cordiali” (un po’ come il rancio dei soldati, sempre “ottimo e abbondante”, come si diceva in tempi andati), ma che non cancellano la realtà di due forze che danno molto spesso l’impressione di navigare a vista. I dem senz’altra bussola, apparentemente, che la speranza di una futura legislatura ancora al traino di Mario Draghi, che ha da tempo altre ambizioni ma non si è ancora svincolato dal suo ruolo commissariale. Gli ex “grillini”, dilaniati dalle loro faide interne, inasprite dalla spaccatura che li accompagna fin dalla nascita dell’attuale governo: gli iscritti votarono sì nella consultazione online su Draghi con il 59,3% di sì. Ma ci volle una robusta cortina fumogena sui contenuti della futura azione dell’esecutivo, e un quesito che definire suggestivo nei confronti dei votanti è decisamente un eufemismo. “Quella divisione – racconta oggi un parlamentare di fede contiana – si riflette, da allora, anche nella discussione fra noi deputati e senatori”.
Certo, oggi le passate sofferenze dei gruppi dirigenti del Nazareno nelle primarie sembrano archiviate. Una consultazione che coinvolga gli attivisti e gli elettori 5 Stelle legittimerebbe chi le vincesse come espressione della coalizione e non del solo Pd: ma con il vantaggio che il pallido Movimento, inchiodato al 13% dai sondaggi, è molto lontano dal poter esprimere personalità di spicco, come in passato hanno fatto più volte i “cespugli” di centrosinistra; ed è costretto, quindi, a fare il portatore d’acqua per le candidature dem. Una annessione indolore, per il Pd, che ha sempre avuto una modestissima propensione alla coalizione, ai compromessi con gli alleati, e una fortissima inclinazione per la leadership in qualunque coalizione elettorale abbia partorito.
La prova del nove sono le ormai prossime elezioni comunali, nelle quali il patto è sottoscritto quasi ovunque, e si basa innanzitutto sulla debolezza dei 5 Stelle: meetup (le loro “sezioni” virtuali) deserti, attivisti rifluiti a casa, ceto politico a caccia di futuro, liste assenti da quasi tutte le schede elettorali, esperimenti post-Movimento già in corso, come a Rieti dove si presenta la civica “ConTe” che richiama il nome del leader, ma ufficialmente, nonostante le stelle in bella evidenza nel simbolo, non è una iniziativa benedetta dal vertice. Risultato prevedibile: dove vinceranno i candidati scelti dal Pd, le forze che nel Pd si oppongono all’alleanza segnaleranno l’inconsistenza degli alleati; dove la coalizione perderà, saranno gli avversari interni di Conte ad accusarlo della disfatta, a causa delle sue oscillazioni sulla linea politica ultragovernativa, rappresentata tradizionalmente dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Il quale, del resto, si è già espresso anche sulle primarie, mettendo in chiaro che si tratta di una responsabilità nelle mani dei due leader: “Le primarie noi non le abbiamo mai fatte. Sia Conte che Letta non hanno definito un progetto”. E se vanno male, sembra di intendere, problemi loro…
Per ora, come si è affrettato a precisare il segretario del Pd replicando a Conte, andrà verificato in concreto “se riusciamo a farle in Sicilia”, le primarie. Si parla di quelle per la selezione del candidato presidente della Regione, il voto è atteso per l’autunno. Il leader 5 Stelle vorrebbe proporre lo stesso format nel Lazio, dove si dovrebbe votare, invece, nella primavera del 2023. Contro l’ipotesi primarie Pd-M5S si schierano da tempo i neocentristi di Renzi e Calenda, ma anche qualche nostalgico renziano rimasto nel partito di Letta: tra i più attivi, Andrea Marcucci, ex capogruppo al Senato, esponente di provenienza liberale (nel senso del Pli), che recentemente è tornato a chiedere una professione e un giuramento di fede “atlantista” come pregiudiziale rispetto al patto con gli stellati.
Tutto il dibattito, in effetti, è condizionato dalle incertezze che riguardano soprattutto la collocazione politica dei 5 Stelle. Fra tre settimane, Draghi concederà finalmente al parlamento il dibattito sulle sue linee strategiche. Se la situazione militare in Ucraina non sarà mutata (se cioè un crollo, che oggi appare improbabile, di una delle due armate non avrà avvicinato all’improvviso il momento di un vero negoziato), potrebbe precipitare lo scontro fra chi – come Conte, e in modo più confuso Salvini – chiede una strategia alternativa, o quanto meno parallela all’invio di armi a Kiev, e palazzo Chigi, più fedele all’ortodossia Nato nella contrapposizione con la Russia.
Altro passaggio decisivo il “decreto aiuti”, con lo scontro sull’inceneritore-termovalorizzatore cui il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, un po’ in ritardo con le promesse elettorali sul tema della pulizia della città, non intende rinunciare. La norma ha già provocato la dissociazione, in Consiglio dei ministri, da parte dei rappresentanti del Movimento, e una nuova spaccatura in parlamento potrebbe essere quell’incidente parlamentare che, secondo i fedelissimi di Conte, “è Draghi a volere”. Anche in questo caso, se si spacca la maggioranza, difficile immaginare che poi Pd e 5 Stelle si ritrovino nelle primarie in Sicilia o nel Lazio.
In definitiva, una corsa a ostacoli dalla quale potrebbe forse venir fuori un embrione di vera alleanza alle prossime elezioni politiche. Ma, d’altro canto, non si può affatto escludere che lasci sul terreno tante di quelle macerie da portare – proprio come auspicano le forze centriste come Italia viva e Azione – ad archiviare definitivamente il progetto del “campo largo” immaginato da Letta e Conte.