Forse aveva ragione Carl von Clausewitz quando insisteva sul disordine soggiacente a ogni guerra. La guerra non è un universo ordinato ma caotico. Il campo di battaglia è qualcosa di più del luogo del dispiegamento e della concretizzazione di una strategia razionale, è uno spazio in cui si mescolano forze orientate a uno scopo ed eventi casuali e imprevedibili, in cui compaiono repentinamente figure e forme ingannevoli, cui non sempre è il caso di affidarsi. Nel conflitto attuale ritroviamo tutti questi elementi noti, unitamente a un’altra componente invece inedita, e cioè la compresenza in esso di tratti modernissimi e innovativi: tecnologie avanzate e sistemi di software sofisticati, social media, riprese satellitari e comunicazione in tempo reale, che convivono con aspetti tipici delle guerre novecentesche: dagli scontri tra carri armati ai tiri di artiglieria, fino alle trincee da prima guerra mondiale.
La guerra tra Russia e Ucraina è una sorta di sintetico repertorio di quanto i conflitti dei secoli scorsi ci hanno consegnato in eredità, inclusa la minaccia nucleare. Una “esposizione universale” diacronica delle metodologie di combattimento e di lotta, ma anche un tornare di ideologie e visioni del mondo rimaste a lungo nel frigorifero della storia. Questo lo sfondo su cui si può leggere la vicenda del complesso industriale dello Azovstal a Mariupol’ e del battaglione Azov, incaricato di difenderlo a oltranza.
Una vicenda veramente singolare, tanto da rappresentare quasi una “guerra nella guerra”, un episodio che, ancorché circoscritto, ha valenze simboliche rilevanti per tutto il conflitto. Non si tratta certo del ritorno dell’epico assedio di Stalingrado – come vorrebbe il chiacchiericcio di una stampa italiana, che conosce la storia solo per aneddoti o per sentito dire –, quanto piuttosto di un riferimento importante che è servito per i media occidentali a dare forza al discorso sulla necessità di aiutare la accanita resistenza ucraina, e al tempo stesso per i media russi a sottolineare come l’obiettivo perseguito non fosse unicamente la presa della città, ma anche quello della “denazificazione” da raggiungersi annientando il famigerato battaglione che difendeva le acciaierie.
In ogni caso, intorno al destino dello Azovstal si è giocata una partita confusa, durante la quale si sono fatte molte illazioni; sono volate accuse di crimini di guerra da ambo le parti, e si è molto fantasticato sui misteri che l’acciaieria avrebbe celato. Una partita che ha visto implicati non solo i membri del “corpo scelto”, ma anche civili (familiari?), esercito russo, ceceni e media. Niente poteva prestarsi meglio a stimolare l’immaginario di questo immenso complesso metallurgico con il suo dedalo di gallerie sotterranee scavate ai tempi della ex Unione sovietica. Uno scenario ideale per un gigantesco e tragico fumetto, peraltro costato un alto prezzo in vite umane.
Ma chi sono in realtà i combattenti dello Azov? Stando a quanto se ne sa, il nucleo originario nasce verso il 2008 da tifoserie calcistiche, già orientate in senso ultranazionalista e revanscista. Il gruppo adotta poi stilemi tradizionali del nazionalsocialismo, facendo proprio il simbolo della Wolfsengel, il gancio per lupi, antico feticcio della estrema destra tedesca, antecedente l’introduzione della svastica, e poi utilizzato da settori delle SS durante la seconda guerra mondiale; ed esibisce anche tatuaggi neonazi e altra paccottiglia nostalgica.
Il fondatore del movimento, Andrij Bilezkij, si era reso celebre a Karkhiv già dagli albori, nel 2008, diffondendo incessantemente il Mein Kampf, come non avevano mancato di riportare, allarmate, diverse organizzazioni ucraine di difesa dei diritti umani. Finito in galera nel 2011 per varie sparatorie e scontri, Bilezkij, poi liberato, aveva avuto mano libera, dopo il 2014, per rafforzare e fare crescere numericamente la sua organizzazione, trasformandola in una realtà decisamente meglio strutturata del mero pugno di estremisti e hooligans iniziale, tanto da riuscire, successivamente, a farla incorporare nell’esercito ucraino. In una intervista al “Daily Telegraph” –dello scorso 18 marzo, a guerra già cominciata – Bilezkij così sintetizzava l’ideologia del suo gruppo: “La missione storica della nostra nazione in questo momento critico è di guidare le razze bianche in un’ultima battaglia per la loro sopravvivenza”.
In Russia è considerato un criminale di guerra per le atrocità che avrebbe commesso a Mariupol’ nel 2014, quando la città fu riconquistata dagli ucraini. Fin qui Azov rientrerebbe a pieno titolo nei canoni della tradizione neonazista, con una aggiunta di suprematismo bianco. Secondo altre letture però, il battaglione avrebbe conosciuto – negli ultimi anni, dopo essere stato incorporato nell’esercito – una riduzione delle sue componenti più radicali, riassorbite in una più generica ideologia nazionalista, anzi sarebbe stato oggetto di scissioni a destra e rifondazioni.
Un reporter della tedesca “Tageszeitung”, che ha condotto una breve inchiesta sui soldati che fanno attualmente parte del battaglione, cita fonti che li ritraggono ignoranti e poco politicizzati, animati da un generico patriottismo, a volte nemmeno consapevoli del significato dei simboli che ostentano. Ora che le armi tacciono – e che buona parte dei combattenti, nonostante i proclami di essere pronti all’estremo sacrificio, è stato prosaicamente imbarcato sugli autobus russi – già si profila una complessa questione di scambi di prigionieri e trattative. Tra l’altro, se i membri del battaglione accusati di crimini contro la popolazione russofona, dovessero essere processati in Russia, non sarebbero suscettibili di condanne alla pena di morte, dato che questa non è prevista dalla costituzione del Paese. Diverso sarebbe, però, il loro destino se fossero consegnati alle autorità delle autoproclamate repubbliche del Donbass e Lugansk, dove invece la pena capitale è contemplata. Bisognerà vedere cosa decideranno di farne i russi, che sostengono che al momento non ci sono trattative in corso riguardanti i prigionieri. Il rischio, a parere di chi scrive, è che farne dei martiri non farebbe che rafforzare in Ucraina la loro popolarità producendo proselitismo, con il risultato paradossale di trasformare l’auspicata de-nazificazione in una ri-nazificazione, circondando il battaglione Azov di un’aura di gloria postuma, che, viste le premesse e la sua storia, sicuramente non merita.