Mentre gli Stati Uniti si predisponevano a una nuova guerra fredda con la Cina (vedi il nostro articolo del 20 settembre scorso), ne è scoppiata una caldissima per responsabilità della Russia. Una disdetta per Biden. A cui tuttavia il presidente statunitense ha posto rimedio armando l’Ucraina e puntando, più o meno apertamente, alla caduta di Putin. Potrebbe essere questa una fotografia del mondo odierno. Ma frattanto, che ne è della Cina?
Il Partito comunista guidato da Xi – che, come Putin, si è reso rieleggibile modificando le regole – si prepara a tenere il suo ventesimo congresso in autunno. È un numero fatidico, questo, per i comunisti cinesi, i quali hanno sempre criticato il ventesimo congresso del Partito comunista dell’Unione sovietica, a cui fanno risalire, con quella interruzione della continuità che fu la destalinizzazione, la fine stessa del mondo sovietico. Del resto, come si ricorderà, fu Mao a sottolineare la brutta piega che gli avvenimenti stavano prendendo, e a rompere, anche sul piano ideologico, con il comunismo post-stalinista kruscioviano. Dunque Xi si prepara, al contrario, a ribadire la coerenza di una storia, sebbene questa sia andata in verità, negli ultimi decenni, in una direzione molto diversa da quella del maoismo.
Nella sua essenza il regime cinese è uno strano capitalismo di Stato, con una ridda di arricchimenti privati che sarebbero simili a quelli di un’oligarchia alla maniera russa, se non fosse che qui tutto si svolge, appunto, in una continuità “comunista” all’interno del partito. In questo senso la Cina è governata in modo molto più centralizzato della Russia. Lo dimostra anche la famosa strategia “Covid zero”, che ha imposto e sta imponendo strettissimi confinamenti a intere megalopoli (da ultimo a Shangai), con un tasso di proteste tutto sommato contenuto. Cosa che non si è vista affatto in Russia, dove il contrasto alla pandemia è stato invece piuttosto fiacco, per non dire pressoché inesistente.
I regimi venuti fuori dal “socialismo reale” o dalle “democrazie popolari” – quali sono, pur con tutte le differenze tra loro, sia la Cina sia la Russia – hanno bisogno, per reggersi, di una comunicazione propagandistica massiccia. Che regoli al tempo stesso la questione del consenso (attuale) con quella, per loro importantissima, dell’identità storica, tenendo così insieme il presente con il passato. Sono perciò regimi post-totalitari, in cui però l’ancoraggio a una tradizione è almeno altrettanto decisivo del “post”. Così la cleptocrazia di Stato russa, quella costituita dai famosi oligarchi che si spartirono le risorse del Paese già una trentina di anni fa, ha trovato in Putin il suo punto di equilibrio nella ripresa sia dello zarismo, e della religione ortodossa, sia di alcuni aspetti dello stalinismo, riannodando una storia nella chiave di un nazional-populismo che, come si è visto, può diventare aggressivo. La Cina, invece, non ha bisogno di risalire a un’epoca pre-rivoluzionaria, perché proprio l’evoluzione del Partito comunista, da Mao a Xi, offre il punto di appoggio di una continuità. La stabilità cinese, in altre parole, è molto più solida di quanto possa essere quella del regime russo. E anche il modo in cui la Cina sta affrontando la questione della rivendicazione territoriale su Taiwan, lo dimostra.
L’isola, detta un tempo Formosa, è essa stessa un risultato della rivoluzione e della guerra civile, in quanto entità statale indipendente. Su di essa si ritirarono le truppe nazionaliste di Chiang Kai-shek al momento della vittoria dei comunisti, nel 1949. A tutti gli effetti, Taiwan è parte della Cina. Ma la storia – come nel caso dell’ex colonia britannica di Hong Kong – reclama i suoi diritti. Dopo più di settant’anni di regime politico filo-occidentale, come potrebbe Taiwan, senza i termini di un accordo, ritornare alla Cina? L’occupazione militare dell’isola non sarebbe certo un compito agevole; e la Cina sta apprendendo non poco dalla fallita “guerra lampo” di Putin in Ucraina: una situazione che potrebbe presentare delle analogie con un suo eventuale impegno in un’avventura bellica.
Il carattere incredibilmente comunicativo delle guerre viene allo scoperto persino in questo caso. L’Occidente – o meglio gli Stati Uniti –, con il suo appoggio incondizionato all’Ucraina, sta parlando a nuora perché suocera intenda. La Cina non può fare altro che recepire il messaggio, assumendo una postura di neutralità, con un occhio di favore nei confronti della Russia, riguardo alla guerra in corso, che pure la danneggia direttamente, perché interrompe i commerci e gli scambi lungo la sua tanto ricercata “via della seta”. Non c’è dubbio – questa la lezione – che un’invasione di Taiwan sarebbe un’impresa di difficilissima attuazione. Tanto più che la Cina ha le sue gatte da pelare già a Hong Kong.
Da pochi giorni, terminato il mandato della molto discussa Carrie Lam, a Hong Kong è stato designato il nuovo “governatore”, John Lee. Si tratta dell’ex capo della sicurezza – un poliziotto insomma –, candidato unico scelto dagli aventi diritto, poco più di un migliaio di votanti, a fronte di una popolazione di oltre sette milioni. A Hong Kong il suffragio universale è un miraggio, ed era una delle richieste di quell’impetuoso movimento pro-democrazia che si è visto negli anni scorsi, prima che su di esso si abbattesse la scure della repressione.
Ora, una Cina resa edotta dall’esperienza e dagli ultimi avvenimenti bellici in Europa, come potrebbe programmare l’invasione di Taiwan, un’isola di ventitré milioni e passa di abitanti, se perfino riprendersi la più piccola Hong Kong, mediante un accordo con la Gran Bretagna, ha posto problemi non da poco? Non c’è da considerare soltanto la maggiore coesione interna del regime cinese rispetto al vuoto in cui è precipitata la Russia, e a cui questa tenta di reagire con il pastiche nazionalistico panrusso; c’è da mettere nel conto, anche e soprattutto, una forma elementare di prudenza, alla quale in tutta la sua storia la Cina ha mostrato di ispirarsi, privilegiando lo sviluppo economico e quello del commercio mondiale come principale missione del suo gruppo dirigente.