La guerra potrà ristagnare a lungo, presa in un batti e ribatti in cui nessuno dei contendenti sembra intenzionato ad arrivare a una trattativa di pace, o soltanto a un “cessate il fuoco”. Il presidente Zelensky, da ultimo, è stato chiaro: l’Ucraina punta a una rinnovata integrità territoriale. Non intenderebbe cedere neppure sulla Crimea, che pure risulta annessa alla Russia ormai dal 2014. Adesso sappiamo che cosa significherebbe “vincere” per Kiev. Non è la pace l’obiettivo, ma una guerra prolungata che si concluda con il ritiro puro e semplice delle truppe russe dal suo territorio. Dall’altro lato, Putin non potrà mai ammettere di essersi imbarcato in un’avventura priva di sbocchi, e seguiterà a combattere, a distruggere rabbiosamente.
Gli Stati Uniti oscillano tra il perseguimento dell’obiettivo minimo di una stanchezza dell’uomo del Cremlino (tenendo conto anche delle sue ingenti perdite) e quello massimo, che consisterebbe in una sua caduta. Per conseguire questo secondo fine, sarebbero disposti ad attendere degli anni – non comprendendo, forse, che Putin non è l’“autocrate” ma l’espressione di un perverso sistema di potere (alla cui costruzione, sotto l’aspetto economico-finanziario, l’Occidente ha contribuito in passato) costituito da una cerchia di circa ventimila persone, tra le quali si potrà comunque trovare un ricambio. La guerra, cioè, potrebbe proseguire – e magari dare il peggio di sé, con il ricorso all’arma atomica tattica – anche con qualcun altro al posto di Putin.
In tutto questo l’Europa paga il prezzo di una guerra in cui è finita di fatto, senza volerlo. Non si possono abbandonare gli ucraini, d’accordo – ma non si dovrebbe nemmeno seguirli in tutte le loro scelte. La questione non è se fornire o no le armi; e non è neppure se continuare o no a comprare il gas di Putin. Si dovrebbe piuttosto indicare una via, un abbozzo di uscita dalla crisi, e a questa subordinare tutti gli aiuti. Esiste – lo si ripete da ogni parte – un rischio concreto di estensione del conflitto, con conseguenze imprevedibili ma comunque tragiche. Sono all’opera, nel teatro ucraino, gruppi nazionalisti estremi – anche di nazionalità bielorussa, a quanto si apprende – che intenderebbero ridisegnare l’intera area provocando la caduta dei due uomini forti, di Mosca e di Minsk. Un aggravamento della guerra, che potrà piacere agli americani, non può piacere agli europei, che fin qui, tuttavia, sono apparsi supini – con l’unica, molto parziale, eccezione della Germania.
Se l’Unione europea una volta di più delude, dovranno essere le “società civili” dei suoi rispettivi Paesi a farsi sentire. Esiste una diffusa opinione pacifista europea che dovrebbe unirsi al di là delle differenze: poco importa, in questo frangente, la distinzione tra quelli che possono dirsi pacifisti “totali”, i quali non vorrebbero inviare nessun’arma offensiva a Kiev, e quelli invece “relativi”, che vorrebbero subordinare l’invio di aiuti, anche militari, all’apertura di una via diplomatica, in cui sia messa in conto, pur di raggiungere lo scopo, una divisione dell’Ucraina. Ciò che accomuna le due posizioni è l’interesse a esercitare una pressione “dal basso” sui vertici europei affinché intraprendano una qualche iniziativa.
In questo senso, sarebbe importante iniziare con una mobilitazione il prossimo 9 maggio, così come indicato dall’editoriale di Michele Mezza. La data “russa” della vittoria contro il nazifascismo nella seconda guerra mondiale non va lasciata all’uomo del Cremlino; va restituita alla storia di quel movimento operaio e popolare di cui è parte, nonostante l’orrore dello stalinismo. E sarebbe l’occasione per cominciare a premere perché l’Europa si smarchi dall’attuale bellicismo statunitense a oltranza.