Commentando lo storico discorso con cui il premier britannico Churchill proclamò la guerra a oltranza contro Hitler, il conte di Halifax, leader della fazione conciliarista con la Germania nazista del parlamento inglese, dichiarò che “Winston ha arruolato la lingua inglese e l’ha mandata a combattere”. Oggi potremmo dire che, nella guerra in Ucraina, la resistenza contro i russi ha arruolato il sistema digitale dell’informazione e lo sta facendo combattere. Più della narrazione – che in guerra è sempre stata usata come arma di propaganda, per coprire e sostenere lo sforzo bellico, dalle contese del Peloponneso fino alle azioni in Iraq e Afghanistan, passando per quella poderosa strategia che coinvolse Hollywood nel secondo conflitto mondiale –, oggi la novità forse irreversibile riguarda proprio i linguaggi, le forme sociali e relazionali degli apparati comunicativi, i saperi e le competenze tecnologiche, che fanno parte del bagaglio del giornalismo, e che stanno diventando logistica militare.
Ci siamo già soffermati sulle modalità social (vedi qui) con cui la resistenza ucraina mostra di sapere, meglio dei russi, usare le risorse tecnologiche per fronteggiare l’urto delle armate convenzionali. Oggi vorremmo riflettere sulle conseguenze di quest’integrazione strategica degli strumenti della comunicazione nei sistemi d’arma.
L’intera gamma dei dispositivi che quotidianamente intermediano il nostro rapporto con il mondo è stata finalizzata a rendere il territorio ucraino una complessa e organizzata piattaforma digitale, dove dati, informazioni e localizzazioni erano meticolosamente raccolti ed elaborati per rendere il nemico un bersaglio permanente. Il fatto che continui lo stillicidio dei generali russi (siamo ormai a poco meno di una ventina) ci dice come il sistema multimediale abbia reso trasparente e accessibile il sistema delle comunicazioni interne delle truppe russe, permettendo ai cecchini di colpire a proprio piacimento anche bersagli delicati quali appunto gli alti comandi.
Elon Musk è oggi il mattatore di questa nuova strategia, con la sua multiforme flotta satellitare, forte di circa diciottomila punti di ripresa dal cielo, che scannerizza ogni movimento sulla superficie terrestre. Con lui, Microsoft è diventato il grande orecchio che intercetta e decodifica i contatti fra i diversi comandi russi. Telegram e Facebook fanno a gara ad assicurare ambienti protetti, in cui il sistema sociale ucraino, benché stretto nella morsa degli accerchiamenti, possa continuare a vivere, gestendo relazioni e comunicazioni, da punto a punto, delle diverse città assediate.
Tutto questo ci pone inevitabilmente un interrogativo: come ritroveremo il sistema della comunicazione quando la tempesta di fuoco e di morte si sarà placata? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo fare un passo indietro, e mettere a fuoco cosa stesse accadendo nel mondo del giornalismo prima che si scatenasse l’inferno in Ucraina.
Dobbiamo solo leggere il libro di Jill Abramson, Mercanti di Verità (Sellerio) per avere una precisa e circostanziata documentazione di come materialmente il mestiere fosse in avanzato stato di trasformazione prima degli eventi bellici. In questo testo, che rappresenta uno straordinario diario di bordo di come siano mutate negli ultimi venti anni le forme e i contenuti della professione e della produzione giornalistica, i due termini non sono più sinonimi, essendosi separata la notizia dall’autore, grazie alle automatizzazioni che stanno riclassificando lo stesso pensiero umano, troviamo, con limpida prosa, la minuziosa descrizione di come oggi le redazioni siano laboratori digitali, in cui la profilazione degli utenti determina la caratterizzazione dell’informazione. La Abramson ci racconta dell’evoluzione, in questo scorcio di Ventunesimo secolo, del mestiere giornalistico, spiegandoci che siamo diventati dei new jockey, degli smistatori di contenuti altrui, che dobbiamo rendere più attraenti e fruibili. Il verbo usato è to match: abbinare. I giornalisti abbinano ogni singola notizia a ognuno dei milioni di utenti unici dei siti web delle testate.
In questo gorgo di personalizzazione dei contenuti, il king non è la notizia, quanto la potenza di calcolo che permette di integrare masse poderose di dati per identificare personalità e senso comune di ognuno dei milioni di utenti. Gli strumenti di questa strategia sono esattamente quelli che permettono ad Amazon e Alibaba di vendere a ognuno l’oggetto che sta per desiderare, oppure a Google di segnalare, con una gerarchia mai identica l’una all’altra, risposte diverse a ognuno dei miliardi di quesiti che riceve, o ancora a Netflix di raccomandare, a ogni singolo suo spettatore, quella sequenza di film e di fiction che risponde all’elettrocardiogramma emotivo che ricava dai dati che accumula nelle carte degli utenti.
Insomma, siamo arbitrati da algoritmi e da sensori che oggi sono stati integrati nella conduzione della guerra per personalizzare anche i combattimenti. Stiamo passando, così, dal capitalismo della sorveglianza, che ci ha raccontato Shoshana Zuboff, a una nuova marca di economia politica del nostro stato biologico – avrebbe detto Michel Foucault – che, finalizzata a una guerra, ci porta alla terribile constatazione di assistere alla programmazione di combattimenti profilati. Potremmo dire, usando l’ormai già datata definizione di Luciano Floridi, che passiamo dall’infosfera alla infoguerra.
In questo passaggio, il giornalismo esce del tutto snaturato, diventando una funzione di un nuovo fenomeno di infoguerra, assumendo i giornalisti la fisionomia di tecnici della nuova logistica dell’informazione: tutti, da questo punto di vista, sono embedded, arruolati in un fronte per il semplice fatto che perfezionano e integrano, con dati ed esperienze, i sistemi d’arma della infoguerra. Ancora una volta, il giornalismo è embedded non più per la sua attitudine a diffondere o a nascondere informazioni della guerra, quanto per la capacità di abilitare, progettare, collaudare e gestire l’uso sociale dei nuovi sistemi di infoguerra.
La conquista di Twitter da parte di Elon Musk offre il primo scenario di questa infoguerra. L’uomo più ricco del mondo coglie l’occasione dello sconvolgimento militare del mercato per accaparrarsi un componente fondamentale del suo prosaico disegno di dominio. Insieme ai sistemi di sensoristica individuale, con cui ricostruisce la nostra emotività, modellando anche spezzoni di morale con il pretesto della guida automatica delle vetture Tesla, e alla potenza satellitare di cui abbiamo parlato, Musk è anche titolare di una sezione di neotecnologie che mirano a integrare il cervello in una relazione uomo-macchina, che gli permette di prototipare cure per l’Alzheimer mediante microchip, e soprattutto sistemi automatici di lettura e scrittura dell’informazione. L’ultimo tassello era disporre della più grande agenzia di notizie del mondo – quale è diventata Twitter, con 220 milioni di utenti, di cui otto fra giornalisti e operatori della comunicazione –, per dotarsi del più grande database di notizie e potere, di conseguenza, interferire con la circolazione delle informazioni.
Una potenza che diverrà, all’indomani dell’armistizio, il vero arsenale con cui la Nato si contrapporrà al fronte orientale del mondo. In questa nuova geografia della rete, le piattaforme non saranno più né universali né tanto meno neutre, ma diverranno le sentinelle dell’Occidente, con cui potranno trattare alla pari. Si profila, dunque, un quadro in cui l’informazione viene militarizzata non come uniformità dei contenuti, ma addirittura come unicità dei vocabolari e dei linguaggi che saranno identificati dai sistemi di intelligenza artificiale privatizzati.
La risposta deve maturare oggi, con una politica di negozialità del calcolo. Quanto sta accadendo su Twitter in questi giorni, con migliaia di utenti che stanno uscendo dalla piattaforma per protestare contro l’invasione di Musk, deve confermarci come sia possibile delineare un conflitto moderno, che metta l’algoritmo al centro della contesa. I giornalisti, come le università e le città, devono diventare soggetti negoziali di una stagione in cui il come fare prevale su cosa dire.
Sarebbe un modo per rovesciare l’aforisma di Balzac, che nel suo libretto intitolato I giornalisti, già alla metà del Diciannovesimo secolo, centrava i difetti della categoria, ignorandone però le potenzialità, scrivendo: “Se l’informazione non ci fosse non bisognerebbe inventarla”. Oggi sembra, invece, che sia indispensabile inventare un mestiere che non si faccia i fatti suoi.