Siamo a una svolta nei rapporti tra l’Arabia saudita e l’Iran, belligeranti dell’ennesima guerra per procura in atto nello Yemen, fin da quella notte tra il 24 e il 25 marzo 2015, quando Riad lanciò un intervento armato nel Paese contro i ribelli sciiti sostenuti appunto da Teheran? Sembrerebbe di sì, se giovedì scorso le delegazioni dei due Paesi – il primo a maggioranza sunnita e il secondo sciita – si sono incontrati, dopo sette mesi di sospensione, a Bagdad, con il sostegno di Mustafa al-Kadhimi, primo ministro iracheno dal 2020, giornalista, giurista, amico personale del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, ma di ampie vedute e interessato a una pacificazione dell’area.
Un anno dopo l’attacco saudita, i rapporti tra le due potenze dell’area peggiorarono all’indomani dell’esecuzione, avvenuta il 2 gennaio 2016, dell’importante religioso sciita saudita Nimr al-Nimr. Evento che scatenò la reazione iraniana, con tanto di assalto all’ambasciata saudita a Teheran e rottura delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi, che continuarono a farsi la guerra attraverso lo Yemen.
Dopo cinque tentativi andati a vuoto, questa volta i due Paesi islamici hanno preso l’impegno di mettere in pratica un memorandum d’intesa in dieci punti, tra i quali c’è l’impegno, da parte saudita, di riaprire le porte a quarantamila iraniani in occasione del pellegrinaggio alla Mecca; la riapertura delle due ambasciate nelle rispettive capitali; più un cessate il fuoco – appunto in territorio yemenita – che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) mettere fine a un conflitto che ha provocato, come riporta il quotidiano “Avvenire”, “più di 377mila vittime, al 60% per gli effetti indiretti del conflitto, come la scarsità di acqua e cibo, mentre sono circa 150mila gli yemeniti che hanno perso la vita negli scontri armati e i bombardamenti aerei”.
I sauditi hanno già applicato la tregua dal primo aprile, decisione che è stata ovviamente apprezzata dall’Iran, sostenitore dei ribelli sciiti yemeniti Ansarullah (Huthi). “I sauditi hanno bisogno di una soluzione per uscire dal pantano yemenita. L’Iran lo sa e detta le sue condizioni”, precisa l’analista palestinese Mouin Rabbani alla testata online “pagineesteri.it”. Ragione per cui, il 7 aprile, il presidente yemenita Abd Rabbo Mansur Hadi, sostenuto dagli Stati Uniti, dall’Unione europea, e dalla maggioranza degli Stati arabi tra i quali ovviamente l’Arabia saudita,si è dimesso – come recita sempre “pagineesteri.it” –, “cedendo il potere a un consiglio di otto membri con il compito di negoziare a Riad una tregua permanente con gli Huthi. I ribelli però chiedono una sede neutrale”.
Hadi sostiene anche l’importanza di trovare “una intesa sul Libano, dove a metà maggio si voterà per il rinnovo del parlamento, che porti a un maggior equilibrio politico tra gli schieramenti politici libanesi che fanno riferimento ai due Paesi, senza mettere in discussione la legittimità del movimento sciita Hezbollah, alleato di Teheran”. Inoltre – sostiene ancora Rabbani – “Iran e Arabia saudita intendono coordinare le loro mosse all’Opec per non incrementare la produzione come chiedono Stati Uniti ed Europa, e tenere alto il costo del barile”.
A favorire una distensione tra i due Paesi, non sarà irrilevante il rilancio del Jcpoa (Accordo sul nucleare iraniano) in discussione a Vienna. È evidente che un accordo tra gli Stati Uniti e l’Iran, come fu ai tempi di Obama, con la conseguente fine delle sanzioni contro il regime degli ayatollah, renderebbe lo scenario più sereno, e dunque più favorevole a una pace definitiva. Questo scendere a più miti consigli, da parte dei due attori della crisi, è dovuto a due novità geopolitiche: da un lato, il disimpegno degli Stati Uniti dall’area mediorientale, preoccupati maggiormente di contrastare la Cina e, ora più di prima, di fermare l’aggressività della Russia di Putin dopo l’invasione dell’Ucraina, di fronte alla quale tutti gli altri problemi passano in secondo piano. Senza dimenticare la sconfitta che Riad ha subìto in Siria, dove a salvare Assad sono stati Mosca e appunto Teheran.
Insomma l’Arabia saudita si è ritrovata in una situazione di debolezza che l’ha spinta a cercare un accordo con il nemico storico sciita. Il quale, dal canto suo, si è trovato di nuovo isolato, quando Donald Trump ha cancellato l’intesa firmata con Obama sul nucleare che, verosimilmente, Biden ripristinerà solo a determinate condizioni. Siamo dunque di fronte a due Paesi in difficoltà che, proprio per questo, non sono più in grado di sostenere un conflitto ormai decennale. In un contesto dove se si esclude la cronica crisi palestinese, e la difficoltà di ricomporre il puzzle libico, sembrano spirare timidi venti di pace. Con la Turchia che sta riaggiustando i propri rapporti con gli Emirati arabi uniti, con l’Egitto e Israele; mentre quest’ultimo ha ormai solide relazioni con le monarchie del Golfo.