Dialoghi a distanza, rotture, divisioni sindacali e perfino uno sciopero generale di Cgil e Uil senza la Cisl. A un certo punto le relazioni tra governo e sindacati, e in generale tra governo e parti sociali, sembravano compromesse definitivamente, con un governo guidato da un ex presidente della Banca centrale alle prese con parti sociali che stentavano a trovare punti di intesa nonostante vari avvicinamenti degli ultimi mesi e nonostante le piattaforme unitarie. Insomma, il quadro aveva cominciato a somigliare più a un puzzle incompiuto che a un mosaico. E invece qualcosa è ripartito. Il governo Draghi, dopo aver messo in sala d’attesa la riforma delle pensioni (per ora non ci sono i soldi anche a causa del progressivo aumento delle spese militari), ha deciso di riaprire il “tavolo verde”. È in calendario, subito dopo Pasqua, un nuovo appuntamento a palazzo Chigi, al quale parteciperà lo stesso presidente del Consiglio insieme ai ministri del Lavoro e dell’Economia. Ma è vero dialogo? Possiamo dire che è ripartita una nuova e inedita stagione di contrattazione?
È ancora troppo presto per rispondere a queste domande; ma intanto, per tentare di capire se siamo davvero in presenza di novità politiche strutturali, si deve avviare un’analisi su un doppio livello. Il primo è quello della cronaca quotidiana, il secondo quello del tentativo di inserire i fatti di oggi in una prospettiva storica.
Cominciamo dal livello più facile: quello delle schermaglie della vigilia. Da una parte ci sono parti della maggioranza di governo e Confindustria che fanno balenare l’idea di un nuovo patto sociale basato sui sacrifici delle classi lavoratrici. In uno scenario compromesso prima dalla pandemia, e ora dalla guerra, è necessario ridurre la quota di ricchezza destinata al lavoro per non vanificare (dicono) gli sforzi di ripresa delle imprese. Opposta la visione sindacale, rappresentata soprattutto dalle posizioni della Cgil (ma su questo la sintonia è abbastanza chiara anche con Uil e Cisl). “Tra qualche mese, senza nuove misure a sostegno dell’economia, la situazione sociale rischia di diventare esplosiva – ha detto di recente il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, in una intervista a un quotidiano nazionale – e se qualcuno pensa di proporre un patto sociale per moderare i salari, fa un errore, e sappia che la Cgil non è disponibile a firmarlo. Questo è il momento di adeguare le retribuzioni e le pensioni all’inflazione reale, lavoratori e pensionati non hanno più nulla da dare, hanno già pagato e non si torna indietro”.
Dall’altra parte, Confindustria ribadisce il suo netto “no” ai sindacati. “Ora il costo del lavoro non può aumentare, non si tocca”. Una posizione parzialmente mitigata dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando, secondo il quale è vero che la moderazione ha sempre il suo perché, ma è anche vero che questo esecutivo non può permettersi di far pagare i costi della crisi pandemico-bellica alle fasce più deboli della popolazione. Il ministro si è sbilanciato con un’affermazione che non è passata inosservata: “I salari siano un’ossessione, i ceti deboli non devono pagare per la guerra”. “I salari dovrebbero essere l’ossessione del governo, della politica delle forze sociali per evitare che le conseguenze della guerra in Ucraina si scarichino sulle fasce più deboli dalla società”. Il ministro pensa a un intervento sul salario minimo, affiancato da un rilancio della contrattazione e quindi delle retribuzioni.
Insomma, su alcuni problemi di fondo sembra ci sia la possibilità di una qualche intesa tra governo e sindacati. I problemi sorgono nel momento della verifica delle scelte concrete di politica economica e di allargamento dei protagonisti. Cgil, Cisl e Uil puntano sul recupero pieno dell’inflazione, che a causa dell’impennata dei costi dell’energia sta falcidiando il potere di acquisto di salari e pensioni, e mettono sul tavolo la necessità di una revisione dei meccanismi di calcolo degli aumenti. Sorde le orecchie degli industriali. Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, è sempre stato chiaro: in questa fase, con tantissime imprese messe alle corde a causa dei costi dell’energia e delle materie prime, il costo del lavoro deve rimanere una variabile intoccabile. Secondo il numero due di viale dell’Astronomia, Maurizio Stirpe, l’unica lontana possibilità di aumentare il potere di acquisto dei lavoratori dovrebbe essere legata ad un “taglio significativo” del cuneo fiscale nell’ordine dei 16-18 miliardi, senza bisogno di uno scostamento di bilancio ma semplicemente rivedendo la spesa pubblica”.
Il dialogo riprende, dunque, su un terreno molto accidentato, su cui le parti continuano a giocare partite diverse. Basti pensare alla questione dei costi dell’energia e delle misure da prendere per tentare di mettere una toppa a uno degli errori più gravi di politica economica degli ultimi anni: quello di non aver diversificato le fonti di approvvigionamento energetico e aver legato il Paese quasi completamente al gas russo. In ogni caso, il modello di concertazione, o meglio di dialogo sociale, che Draghi ha in testa non è certo quello degli anni Novanta, quando leader carismatici – come Lama, Carniti, Benvenuto, Trentin – teorizzavano e praticavano concretamente il modello del sindacato “soggetto politico”, nel pluralismo culturale e politico delle rispettive organizzazioni sindacali, imponendo, per tutto il decennio Settanta e Ottanta, anche dopo il “decreto di San Valentino” nel 1984, a governi e parlamenti di discutere con i rappresentanti del mondo del lavoro la politica economica nazionale.
Il modello Draghi non è paragonabile neppure a quelli degli anni della concertazione e del neocorporativismo “all’italiana”, che negli anni Novanta del secolo scorso hanno caratterizzato le relazioni sindacali. Sul piano storico, come sappiamo bene, è ancora tutta da fare l’analisi degli effetti reali sull’economia dei modelli concertativi. Molti sono i giudizi positivi, ma altrettanti (se non forse maggiori) quelli negativi. Alcuni commentatori e studiosi criticano, per esempio, l’insufficienza di interventi nel campo delle politiche attive del lavoro. La concertazione modello anni Novanta si è cimentata, infatti, soprattutto sul contenimento dei costi e quindi sulla limitazione delle richieste di aumenti salariali anche dopo la fine della “scala mobile” (metà anni Ottanta).
Agli anni della concertazione è seguito, poi, un lungo periodo di fratture sociali ripetute da esecutivo a esecutivo. Le parti sociali, e in particolare i sindacati dei lavoratori, sono stati completamente esclusi dalla “stanza dei bottoni” (dai governi Berlusconi, ma anche dai governi di centrosinistra con D’Alema e poi con Renzi). Il sindacato confederale si è trovato a pagare un prezzo doppio. Da un lato, è stato marginalizzato nelle scelte di politica generale, dall’altro, è stato identificato da una parte importante dell’opinione pubblica come uno dei soggetti della “casta”. Il sindacato confederale non era più un “soggetto politico”, come lo pensava Bruno Trentin, ma era comunque identificato con il Palazzo. Doppio paradosso.
E oggi che succede? Per la maggior parte dei commentatori politici non ci sono elementi che facciano presumere cambiamenti nel metodo di governo Draghi, che è stato anche la cifra del suo ampio consenso: ascolto, registrazione delle proposte, quelle delle parti sociali e dei partiti della sua maggioranza, per decidere la soluzione praticabile. La decisione di riaprire il “tavolo”, da questo punto di vista, non può essere ancora considerata un salto verso una concertazione strutturale, quanto piuttosto un allargamento della platea delle voci da ascoltare. Draghi cerca uno spazio più ampio di manovra per un governo legittimato nei confronti dei cittadini e delle istituzioni europee. La novità, rispetto agli anni passati, potrebbe essere proprio la centralità delle politiche del lavoro, che costituiscono un tassello fondamentale nel processo di transizione economica e sociale in atto.