Il voto francese appare come una spettacolare, densa dimostrazione di quel processo che Gramsci avrebbe definito di “disassimilazione” della classe dirigente di un Paese. Più precisamente, l’autore dei Quaderni dal carcere così scriveva, analizzando i prodromi di una insufficiente egemonia politica di una classe di potere che, già prima della seconda guerra mondiale, gli appariva ormai “saturata”: “Non solo non si diffonde, ma si disgrega; non solo non assimila nuovi elementi, ma disassimila una parte di se stessa (o almeno le disassimilazioni sono enormemente più numerose delle assimilazioni)”. Una fotografia perfetta di quanto sta accadendo in Occidente, e che in Francia è diventata dinamica elettorale.
Se anche noi potessimo guardare dall’alto, attraverso un satellite della storia – così come oggi si analizza il teatro di guerra in Ucraina, grazie ai sistemi di monitoraggio dallo spazio della flotta privata di Elon Musk –, vedremmo un pianeta in cui il potere si restringe, si satura nelle sue capacità di rappresentanza, irrigidendosi in autarchie a Est e in plutocrazie tecnologiche a Ovest. In mezzo, osserveremmo le maree di oceani sociali senza partito e senza sindacati, in preda all’ansia individuale di allontanarsi dalle ultime posizioni, cercando di assomigliare sempre più alle odiate élite che si vorrebbero combattere.
Il linguaggio e la forma di questa dinamica, che sottrae riconoscimento e legittimità alle istituzioni rappresentative, sono da inserire in un processo lucidamente descritto nel saggio L’arco dell’Impero (Leg editore) dal generale cinese Qiao Liang, che parla del decentramento e della demonetizzazione come delle due talpe che stanno scavando sotto i piedi del primato americano e, più in generale, delle democrazie rappresentative liberali.
La combinazione delle due riflessioni – quella del più maturo marxismo occidentale che lavorava sui punti alti della contraddizione capitale/lavoro di Gramsci, e quella di una visione globalista delle tecnologie neurali, che riorganizzano la società immateriale, del cinese Qiao Liang – forniscono gli strumenti di analisi, e la bussola di localizzazione, di una crisi che sempre più si afferma come transizione verso un mondo che non conosciamo, e che appare del tutto irriducibile ai connotati tradizionali con cui abbiamo avuto a che fare, anche solo fino a qualche mese fa, in cui partiti, sindacati e società civile appaiono solo lontani ricordi.
La mappa del voto francese annuncia nuove sorprese. Lo schema a cui eravamo abituati, caratterizzato da periferie populiste ed eversive che accerchiano centri storici e aree residenziali apparentemente riformatrici e progressiste, sembra già evolvere verso una geografia ancora più complessa e indefinita. Il combinato disposto dei consensi raccolti dal fronte neoputiniano di Marine Le Pen, e da quella sinistra populista in ebollizione di Mélenchon, sta suggerendo che non basta più il semplice modello del populismo localista e nazionale per classificare le dinamiche di rancorose rivolte che si innescano nelle urne. L’ibridazione del dualismo fra centro e periferie, insieme con la contrapposizione emarginati/inglobati, pone ormai all’ordine del giorno la rinegoziazione del patto di cittadinanza che sorregge ancora la democrazia rappresentativa in Occidente, fino a ora tenuto in piedi da quella rete di reciproche convenienze che vedeva le diverse componenti sociali constatare, più o meno con rassegnazione, l’inevitabilità di una convivenza istituzionale. Questo patto cementato dall’equilibrio tra welfare sociale e primato finanziario, capace di parlare all’intera gamma degli interessi e dei bisogni che animava la dialettica delle comunità nazionali occidentali, si rompe per l’indifferenza dei ceti medio-alti a esercitare le forme di un’egemonia indispensabili per assicurarne il controllo.
La rivolta della scala sociale che discende a valle di questi gruppi privilegiati è la conseguenza, non la causa, della mancata mediazione dall’alto. Ritornando a Gramsci, siamo dinanzi a un caso di scuola di sovversivismo dei ceti dirigenti. Un sovversivismo che porta proprio le élite politico-sociali – dinanzi alla complessità dei nuovi codici comunicativi delle forme del potere, che non possono più prescindere dalla persuasione e condivisione con larghi strati di consumatori e utenti delle reti socio-economiche che danno spessore alle istituzioni sociali – a spostare sul controllo degli apparati amministrativi e sul dominio delle competenze tecniche la sede della governance e dei processi decisionali. Oggi si governa sempre più mediante soluzioni tecniche, atti amministrativi, governo degli esperti, scelte emergenziali.
Gramsci parlava di una “cristallizzazione del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta”. Siamo a uno snodo paragonabile a quello degli anni Trenta del secolo scorso, quando le svolte autoritarie in Europa simboleggiarono questa scelta del capitale.
Il termine “casta”, che troviamo in questa riflessione di Gramsci, segnala una torsione semantico-politica consumatasi dopo la dispersione del “soggetto lavoro” nella dialettica sociale. Oggi quell’espressione suona come un tipico tema delle destre, comunque figlio di una ricorrente ribellione liberista contro i processi di mediazione e partecipazione della politica del conflitto, attraverso i quali intervengono nella storia, con le proprie organizzazioni, le masse di un Paese. Proprio l’accesso alla storia, la rottura di quel cerchio di gesso in cui erano confinate e neutralizzate, porta i ceti popolari a scegliere un capo ideologico in cui saldare identità e abnegazione. Tale fu la scelta sovietista negli anni Venti, oppure – dinanzi a una sprezzante chiusura di ogni spazio da parte delle forze del primo capitalismo finanziario europeo – l’adesione ai fascismi emergenti, in cui, come scrive Hannah Arendt, “le masse irruppero nella storia anche a costo della propria distruzione”.
Intorno al rischio di questa disperazione come motore sostitutivo del conflitto di classe, ragionava Gramsci dopo avere riflettuto su “americanismo e fordismo”. Una sconfitta sul controllo operaio della produzione, e dunque della società, fa intravedere al dirigente comunista italiano il pericolo, per il movimento dei lavoratori, di essere emarginato da ogni rilevanza storico-politica, in un momento in cui l’avversario di classe eccita gli istinti peggiori del ceto medio, con una corporativizzazione degli interessi e delle competenze in chiave antidemocratica. In una fase del genere, l’incapacità della classe dirigente di mantenere il potere mediante l’egemonia sulla società civile tende a essere colmata con un aumento esponenziale dell’intervento dello Stato, mediante la forza coercitiva del diritto penale, al fine d’imporre all’insieme sociale gli interessi delle classi dominanti, in un modo – nota Gramsci – “tendente a integrare col terrorismo l’insufficienza governativa”.
Il voto francese indica come sia ulteriormente tracimata questa spinta eversiva. La mappa elettorale descrive una geo-referenziazione dei consensi lungo i cerchi concentrici della rilevanza e delle ambizioni sociali. Le regioni del Nord, disossate da ogni infrastruttura industriale, le periferie delle metropoli lungo l’asse Parigi-Lione-Marsiglia, che galleggiano nel precariato settimanale di lavori senza stipendio, fino alle campagne inaridite dai contributi europei, che hanno frenato la produzione e ingrassato le proprietà agrarie, parlano di una rivoluzione passiva che ha ormai molecolarizzato ogni gruppo o comunità territoriale. E anche il disagio ha mutato qualità. Non è più sufficiente leggere queste isobare sociali solo con il vecchio criterio della diseguaglianza, o della mancata speranza di miglioramento. Siamo trasversalmente dominati da un processo di sostituzione del motore che spinge i destini individuali: dove prima era l’organizzazione di forme di emancipazione collettiva, oggi abbiamo un pulviscolo di ambizioni individuali. Il buco nero da decifrare è quale sia quel meccanismo che spinge i poveri a sognare da ricchi e votare da evasori fiscali. Quale forma di trasmissione ideologica e culturale, di comunicazione senza contesto e soprattutto senza contrasto, può oggi trasformare i vecchi poli operai e popolari in un’unica Vandea rancorosa dove, senza continuità, si connette l’area “no vax” a quella “no tax”, per arrivare sull’Ucraina a una scelta “no pax” filoputiniana?
L’interclassismo di questa visione – in cui l’antielitarismo non è la risposta alla miseria o allo sfruttamento, quanto piuttosto la nuova pratica di una lotta di classe di destra, in cui il nemico è additato nella felicità dei pochi, contro la noia o la mediocrità di tutti gli altri, in cui è la differenza e non la solidarietà la via per tamponare il destino avverso, partecipando a quella gigantesca tombola competitiva, in cui ognuno spera di farcela grazie al fallimento di tutti gli altri – diventa il linguaggio che sta resettando le culture popolari.
Forma e contenuto di questo ribellismo populista è quella pandemia tecnologica senza vaccini che ridisegna le identità di ceti e figure professionali; ed è soprattutto il subire una pressione passiva da parte di una rete che ti parla – come il potere non fa – in prima persona, proprio a te, direttamente. Torniamo così a quella forma-partito moderna che è stata Cambridge Analytica, al meccanismo che ha riprogrammato in un voto sorprendente il disagio di milioni di ex lavoratori americani, che si sono trovati a sostenere un miliardario reazionario. Se sei al centro di un gorgo che coglie le motivazioni del tuo malessere, leggendo e decifrando le tue emozioni sulla rete e distillando messaggi individuali che rispondono a domande mal formulate, come resistere se rimani solo? In quale ambito, gruppo o organizzazione confrontarsi se – fra te e la proprietà delle piattaforme digitali – non c’è nessuno? Come scrive Shoshana Zuboff, nel suo saggio Il capitalismo della sorveglianza (Luiss editore), “i sistemi social ci stanno esiliando nella nostra singola esperienza”. Se le tecnologie digitali, con la potenza di calcolo che misura e classifica segni e sogni di ogni singolo individuo, per orientarne scelte e desideri in un meccanismo di profilazione predittiva, sono il linguaggio di gruppi di potere, persino transnazionali, che costruiscono senso comune a livello continentale, sovvertendo ogni modello di contrattazione sociale in un generico ribellismo destabilizzante, diventa difficile ritrovare poi il filo di identità e interessi convergenti di ceti e realtà produttive.
La scomposizione di ogni forma di aggregazione politica e sindacale – con l’assenza del riconoscimento in una narrazione sociale alternativa, che profili un protagonismo, un ruolo di riprogrammazione dei meccanismi di convivenza, conseguenza e non causa del collasso di un intero mondo elaborato dalle pratiche del lavoro di massa – espone, in modo granulare, ogni individuo a una pressione culturale e comunicativa che ne deforma il senso comune. Proprio la condizione di separato, di singolo, di individuo che si connette – ma non si organizza – ai suoi simili, per occasionali convergenze, da cui subito staccarsi per ritrovare la propria solitudine competitiva, rende coerente e performante la propaganda reazionaria che si esprime mediante un’intimità e una famigliarità artificiale del linguaggio.
In questo brusio, la variante Mélenchon potrebbe sgonfiare il soufflé, e denunciare come il re sia nudo. Il tribuno della cosiddetta sinistra populista ha eroso quote di consenso significative a Le Pen, contestando l’univocità della protesta come monopolio della destra. Rimettere in marcia un’alleanza di ceto medio intellettuale e aree di lavoro precario e sussistenza marginale significa colpire al cuore l’ordito sovranista, dove, come grida Le Pen, “se vota il popolo, vince il popolo”. Intendendo qui per “popolo” la rivolta reazionaria. Il successo di Mélenchon, a Parigi e a Lione, oltre che la tenuta nelle regioni della costa mediterranea e della Normandia lepenista, mostra invece come sia riconvertibile la tendenza che vede inesorabile il consolidarsi di un voto popolare di destra.
Certo, non può solo l’ennesima mobilitazione antifascista far digerire a questa base sociale – che ha combattuto su due fronti, il centro borghese e una destra travestita – l’adesione al presidente uscente. Proprio un’estensione dei temi dell’autonomia e sovranità del Paese sui nodi dei linguaggi e delle intelligenze potrebbe saldare i due schieramenti, chiedendo a Mélenchon di essere garante e testimonial di una proposta che dia un “popolo” a una strategia innovativa e competitiva, senza abdicare alla propria ambizione di un rinnovamento antropologico del potere amministrativo nel Paese. Un’azione di rigenerazione della classe dirigente, che dia una missione agli esperti, senza sottomissione né sprezzanti snobismi.
Se la destra è sovversione da parte di chi decide, il fronte opposto non potrà non essere costituzionalizzazione degli apparati del governo, a cominciare dai sistemi di interferenza nei comportamenti e nelle decisioni. In fin dei conti, si tratta di tradurre in un linguaggio digitale le tre parole d’ordine dell’89 rivoluzionario: libertà, fraternità e soprattutto eguaglianza. Se il popolo comprende, il popolo vince.