Dieci gradi di giudizio e centocinquanta udienze sono stati necessari per accertare le responsabilità della morte del giovane Stefano Cucchi: i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro sono colpevoli di omicidio preterintenzionale. Quella sera del 15 ottobre 2009, nella caserma della compagnia Casilina, pestarono a morte l’allora trentunenne geometra, che morì all’ospedale Pertini sei giorni dopo. Era stato arrestato per droga; e i carabinieri, invece di avere cura della persona che avevano messo in stato di fermo, lo sottoposero a un pestaggio. Questa ricostruzione dei fatti è stata stabilita definitivamente dalla Cassazione, che ieri ha messo una pietra su questa parte della vicenda giudiziaria che tuttavia prosegue. L’Alto giudice, infatti, ha annullato la sentenza d’appello contro Roberto Mandolini e Francesco Tedesco – i due carabinieri accusati di falso –, si farà un nuovo processo: al primo erano stati inflitti quattro anni in appello, per aver coperto quanto accaduto, e due anni e mezzo a Francesco Tedesco che, inizialmente imputato per il pestaggio, durante il processo di primo grado aveva denunciato i suoi colleghi, diventando un teste chiave dell’accusa: sui due reati incombe il termine di maggio, quando scatterà la prescrizione.
E ancora: giovedì prossimo è attesa la sentenza sui depistaggi contro altri otto appartenenti all’Arma. E, mentre prendiamo atto di una sentenza che riporta verità e giustizia in un caso che ha scosso l’opinione pubblica, occorre riflettere su due aspetti tra loro intimamente legati.
La morte di Stefano ci pone di fronte a una questione democratica niente affatto secondaria: non parliamo dell’aspetto criminale della vicenda, ma della esistenza di un corpo istituzionale “separato” dello Stato, all’interno del quale è stato arduo provare a chiedere conto dell’operato dei suoi membri. Un corpo che si è dato da fare non per punire gli infedeli e criminali, ma per coprirli, proteggerli: per questo, dopo tredici anni, la famiglia Cucchi è ancora in tribunale a chiedere giustizia.
Come vi abbiamo già raccontato su “terzogiornale”, diversi episodi gravi o imbarazzanti hanno sconvolto la vita interna dell’Arma – marescialli in galera perché nascondevano refurtiva e depistavano le indagini, luogotenenti finiti nei guai come collezionisti di armi da guerra illegali, le notizie sul cold case di Serena Mollicone, i fatti nella caserma di Piacenza, l’ex comandante generale Tullio Del Sette (in carica dal 2015 al 2018) condannato, lo scorso gennaio, a dieci mesi (con pena sospesa) per rivelazioni di segreto d’ufficio nel caso Consip. Oltre al caso Cucchi.
Sono tutti segnali piuttosto forti di una vita interna che procede con fatica, un meccanismo nel quale le gerarchie funzionano male. Forse è stata data troppa autonomia a questa forza armata dello Stato? Autonomi dal 2000 – prima erano parte dell’Esercito –, la riforma ha anche consentito che il Comando generale dei carabinieri vada a un membro interno, superando la vecchia regola che affidava la guida a un esponente dell’Esercito: un passaggio che, secondo molti, ha scatenato un carrierismo interno assai controproducente e un’autoreferenzialità pericolosa di fronte a una politica spesso passiva: quando l’Arma ha chiesto su un piatto d’argento un intero corpo dello Stato, quello della Forestale, gli è stato generosamente offerto (riforma Renzi-Madia). In barba alla protezione delle foreste, e alla professionalità degli agenti dei parchi, che oggi vestono una divisa e sono soggetti al codice militare.
L’altro aspetto della vicenda riguarda la battaglia civile della famiglia Cucchi, senza la quale, lo sappiamo bene, non ci sarebbe stata verità e giustizia per Stefano. È il modulo ripetuto tante volte: la memoria storica, la richiesta di giustizia sono state esaudite solo grazie alle lotte dei familiari delle vittime, da piazza Fontana in poi. Lo schema si è ripetuto anche questa volta, in una circostanza ben diversa dai fatti del passato, ma nella quale si è verificato lo stesso nodo: un pezzo dello Stato va per conto suo, si autolegittima e partecipa a imprese criminali; l’establishment lo protegge, non lo ripudia. Eh sì, una grave questione democratica.