Gli scontri parlamentari sull’aumento delle spese militari italiane si inseriscono in un dibattito europeo che vede, da un lato, i sostenitori del rilancio della Nato (quasi tutti i Paesi dell’Unione) e, dall’altro, chi propugna la “difesa europea” come la Francia. Dei ventisette membri dell’Unione, mettendo da parte quelli che attualmente non aderiscono all’Alleanza atlantica (Irlanda, Austria, Svezia, Finlandia), una ventina desiderano che tutto continui a svolgersi nel quadro della Nato sul piano operativo. Come sappiamo, la spinta all’incremento delle spese per la difesa viene dall’invasione russa dell’Ucraina, e dai cambiamenti che ne derivano sul piano geopolitico e per la sicurezza del continente.
La questione non può essere esaminata se non alla luce degli effettivi interessi europei e delle reali intenzioni delle leadership russa e statunitense, accantonando le narrazioni ideologiche sulla difesa dei “valori”, sulla contrapposizione tra democrazie e autocrazie, oppure sulla lotta al “macellaio criminale Putin”. Un racconto che scomoda i massimi sistemi e rimuove la memoria delle centinaia di migliaia di vittime civili causate dagli interventi militari occidentali in Serbia, Iraq, Afghanistan, eccetera. Certo, i massacri degli uni non giustificano quelli degli altri (per esempio in Cecenia, senza che nessuno o quasi protestasse); ma perlomeno dovrebbero consentire di risparmiarci le prediche.
È da ritenere probabile che il Cremlino non riesca a sottomettere l’intera Ucraina, per non parlare dell’ipotesi di una sua occupazione permanente, e pertanto ambisca soprattutto a costituire un confine securitario rispetto alla presenza di armi convenzionali e nucleari occidentali. I suoi declamati progetti imperiali devono, dunque, ridimensionarsi non potendo essere attuati solo con il potere militare, e dovendo fare i conti con una debole struttura economica.
È diffusa l’idea che Mosca avesse in progetto una “guerra lampo” puntando tutte le carte sul collasso delle forze armate ucraine. Ma in realtà nessuno a Mosca aveva preannunciato un intervento militare del genere. Anzi, il Cremlino – consapevole della modernizzazione dell’esercito ucraino da parte occidentale, con la fornitura di circa due miliardi di armi tecnologicamente avanzate negli ultimi due anni – potrebbe aver messo in conto una sua lunga resistenza. Resta aperta, conseguentemente, l’ipotesi del lento strangolamento delle città principali, combinata con la priorità della “liberazione” del Donbass e l’apertura di un corridoio terrestre verso la Crimea. Insomma, da parte di Mosca, si può ipotizzare che fosse preventivata una guerra di lunga durata.
Appare evidente, ormai, che gli Stati Uniti intendano alimentare e prorogare il più possibile il conflitto attuale per ottenere, se non proprio un cambio di regime, almeno un turn over dell’autocrate che regna a Mosca. Putin, provocato a lungo dall’integrazione progressiva di numerosi Stati est-europei nella Nato, ha fornito agli Stati Uniti l’occasione per una proxy war, cioè una guerra per procura, che potrebbe finire con il logorare la Russia e ridurre le sue ambizioni a quelle di una potenza regionale secondaria – senza perdere di vista la creazione di un limes occidentale all’espansionismo commerciale cinese, la cui nuova “via della seta” terrestre passa appunto per l’Ucraina.
In ogni caso, gli americani stanno già ottenendo il rilancio dell’atlantismo in Europa (almeno nel breve periodo) e della loro leadership sull’Occidente, a spese dei Paesi europei, che subiscono gli incrementi delle spese militari, gli aumenti dei prodotti energetici, il carovita e l’accoglienza di milioni di rifugiati. Il tutto a rischio di una escalation, le cui tappe potrebbero concludersi con una guerra nucleare. In ogni caso, la riunione a cinque, dei giorni scorsi, tra Biden, Johnson, Scholz, Macron e Draghi, ha svelato le crepe e le divergenze strategiche soprattutto tra gli anglosassoni e il cancelliere tedesco, il quale ha proposto una de–escalation delle sanzioni alla Russia, in caso di una tregua tra Kiev e Mosca, con Macron in una postura intermedia e Draghi vicino alla posizione statunitense.
La “Bussola strategica europea” e il mini-esercito dell’Unione
Il 21 marzo scorso, a Bruxelles, è stato approvato un documento che contiene la nuova dottrina militare a livello comunitario per i prossimi dieci anni, la cosiddetta “Bussola strategica in materia di sicurezza e difesa” (vedi qui). L’obiettivo è quello di rafforzare la dottrina militare europea, alla luce dei recenti avvenimenti in Ucraina, dopo che, nel 2018, su iniziativa dell’allora Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Federica Mogherini, (ora sostituita da Josep Borrell), si decise di utilizzare per il settore della difesa gli articoli dei trattati europei che permettono progetti comuni di cooperazione.
È prevista una forza armata europea di dispiegamento rapido composta da cinquemila uomini da utilizzare nei teatri di crisi; si badi, non un vero e proprio esercito europeo, ma una “forza parallela” alle truppe nazionali, che seguirà una catena di comando a livello comunitario. Non è la prima volta che l’Unione prova a istituire un’entità militare comune, ma i precedenti tentativi non sono riusciti. Anche senza risalire fino alla Ced – la proposta di una Comunità europea di difesa degli anni Cinquanta, bocciata da De Gaulle –, già nel 1999 a Helsinki si decise che, entro il 2003, ogni Stato membro dovesse essere in grado di fornire personale per allestire un contingente di cinquanta-sessantamila uomini, pronti a effettuare per un anno missioni in luoghi di crisi; ma dopo l’operazione “Artemis”, in Congo nel 2003, si preferì istituire dei battlegroups, battaglioni composti da 1.500 militari rapidamente dislocabili in circostanze critiche, quali missioni umanitarie, di assistenza militare, gestione delle crisi, lotta al terrorismo. Pur non essendo mancate, negli ultimi anni, emergenze con queste caratteristiche, le squadre da battaglia non sono mai state impiegate; ogni loro missione richiede, infatti, l’unanimità degli Stati membri, regola che sarà peraltro valida anche per la nuova forza di cinquemila soldati prevista dalla “Bussola”.
Secondo Parigi, con questo documento, “i ventisette comprendono finalmente la necessità dell’autonomia strategica europea”. Tuttavia, dalle cronache, risulta un approccio alle problematiche della difesa europea un po’ diverso. Nel corso del recente vertice europeo di Versailles, dell’11 e 12 marzo, sono state rafforzate le parti concernenti la collaborazione con la Nato, quella relativa al pericolo di attacchi cibernetici e ribadito l’impegno per un aumento delle spese militari di ogni singolo Paese. Qualche giorno dopo, il 24 marzo, nella capitale belga si è svolto un summit alla presenza di Joe Biden per un rilancio dell’Alleanza atlantica (già giudicata “obsoleta” da Trump nel 2017 e in “morte cerebrale” da Macron nel 2019). Anche la Svezia e la Finlandia, che finora si erano tenute a debita distanza, stanno prendendo in considerazione la loro adesione alla Nato, ma nel frattempo chiedono all’Unione europea di chiarire la clausola di difesa reciproca contenuta nel Trattato di Lisbona. Il riferimento è all’articolo 42, paragrafo 7, il quale prevede che, qualora un Paese dell’Unione europea subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Paesi dell’Unione siano tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso. Si osservi, per inciso, che se si costituisse una difesa europea, e Kiev aderisse all’Unione, si porrebbe anche il problema della dislocazione in Ucraina di forze e mezzi dell’esercito comune, in contrasto con la futura neutralità di quel Paese, ipotizzata nelle trattative in corso.
La svolta più eclatante di queste settimane è stata quella della Germania, che ha annunciato un piano di riarmo da cento miliardi di euro da spendere in cinque anni. Dopo l’unificazione tedesca, gli effettivi delle forze armate erano stati ridotti da mezzo milione a 180mila, il numero dei blindati da combattimento della fanteria era passato da quattromila unità a trecentocinquanta, e non più del 30% degli elicotteri poteva essere considerato operativo: per questo l’esercito tedesco era stato ironicamente definito, da alti ufficiali Nato, come “un gruppo di simpatici campeggiatori”.
La guerra mossa da Putin, pur costituendo un grande stimolo all’aumento della spesa militare, potrebbe avere addirittura l’effetto di allontanare la realizzazione di una difesa comune. Infatti, come prima mossa, il governo di Olaf Scholz, invece di puntare sul futuro caccia europeo (il Future combat air system), ha deciso l’acquisto di trentacinque aerei F35, prodotti dalla società americana Lockheed Martin, per sostituire i suoi vecchi Tornado. Una scelta, questa, fatta anche da altri otto Paesi europei: Gran Bretagna, Belgio, Italia, Svizzera, Olanda, Norvegia, Polonia e Finlandia.
La scelta degli aerei statunitensi si spiega con il desiderio di Berlino di avere subito a disposizione strumenti di dissuasione nucleare. Il punto è che gli Stati Uniti vietano il trasporto di bombe nucleari con aerei non americani, tagliando fuori così i loro concorrenti europei (l’Eurofighter di Airbus, il Rafale di Dassault o lo svedese Gripen). In pratica, i tedeschi hanno scelto di mettersi sotto il sistema della doppia chiave statunitense: per servirsi, eventualmente, dei propri aerei muniti di testate nucleari, avranno bisogno dell’autorizzazione degli americani. Del futuro caccia europeo, malgrado l’affermazione di Scholz che il perseguimento dei progetti in corso rimane “una priorità assoluta”, se ne riparlerà probabilmente solo nel 2050-2060.
Merkel aveva respinto per anni le pressioni per l’acquisto degli aerei della Lockheed Martin, invocando la necessità di salvaguardare le competenze europee nel settore della difesa, in difficoltà a causa delle rivalità per la ripartizione degli appalti tra i diversi gruppi del nostro continente (Airbus, Dassault, Safran, Leonardo, Mbu, Rheinmetall, Thales). C’è da temere che questo, come altri progetti di sistemi d’arma da fare produrre dalle nostre industrie, siano nati morti, o perlomeno rinviati a data da destinarsi.
Secondo l’economista Jacques Attali, ex consigliere di François Mitterrand, servirebbe al contrario “una Germania strettamente integrata in Europa e un Airbus della difesa fra Francia, Italia e Germania”. Ma le proposte francesi di autonomia militare europea non hanno mai veramente interessato gli altri partner europei, che hanno visto i relativi progetti come concorrenziali nei confronti della Nato. Quando Macron – unico capo di uno Stato europeo in possesso di armi nucleari dopo la Brexit – ha proposto di discutere del perimetro della dissuasione nucleare francese, nessuno di loro ha ripreso l’argomento. In queste settimane, la Francia ha messo la sua struttura militare nucleare in massima allerta dopo la decisione di Putin di mettere in prontezza le sue forze nucleari; e tre dei quattro sommergibili nucleari sous-marins lanceurs d’engins, di nuova gnerazione, sono stati posti in navigazione (quando, in tempi normali, ce n’è sempre solo uno in mare aperto).
Secondo il generale Vincent Desportes, che ha ricoperto diversi ruoli apicali nelle forze armate francesi, “se a Putin venisse voglia di invadere un Paese della Nato, è chiaro che i Paesi europei si batterebbero, ma nulla ci dice che gli americani farebbero lo stesso”. Non è il parere, per esempio, del responsabile della politica estera del gruppo socialdemocratico al Bundestag: “Non ci priveremmo della Nato per un bel po’. Noi vogliamo che continuino a interessarsi degli affari europei. L’ombrello nucleare americano non può essere sostituito in maniera così completa dalla force de frappe francese”. Si stima, infatti, che la Francia possieda 290 testate nucleari operative, più dieci o venti di riserva, ben poco di fronte alla Russia, che possiederebbe 4.477 testate nucleari, di cui circa 1.588 attualmente operative. Anche per quanto concerne le truppe sul terreno, la Nato schiera attualmente la sua forza di reazione di quarantamila uomini; al confronto, la forza di rapido intervento europea di cinquemila militari viene da molti ritenuta del tutto inutile.
Nessun futuro per l’autonomia militare europea?
I francesi temono sia una Germania troppo potente e indipendente da qualsiasi alleanza, sia una Germania vassalla degli americani. Parigi, da parte sua, ha ben chiaro di avere bisogno del potere economico tedesco per sostenere la forza militare europea. Dovrebbe intanto condividere la gestione delle testate nucleari, almeno con lo stato maggiore tedesco, come ha suggerito l’ex primo ministro Dominique de Villepin.
Una riflessione di più lungo respiro sembra farsi strada anche tra i responsabili tedeschi. La Germania ospita sul suo territorio ben 35mila soldati americani, nonché un nucleo indeterminato di testate nucleari sempre statunitensi. Berlino mantiene una flotta di aerei equipaggiati per trasportare bombe atomiche statunitensi, abilitati a sganciarle solo su ordine degli Stati Uniti in caso di conflitto. Nonostante ciò, l’affidabilità degli Usa è sempre più messa in discussione, anche se non è previsto il trasferimento della sicurezza nucleare tedesca all’atomica francese. Nel 2017, la stessa Merkel aveva sostenuto che l’Europa doveva garantire, per l’avvenire, la propria sicurezza: un ragionamento ora accantonato dai dirigenti di Berlino.
Certo, il progetto di una forza militare europea autonoma dalla Nato non è per domani. Qualcosa, in questa direzione, comunque si muove. La stessa “Bussola strategica” prevede due piani di intervento: oltre al mini-esercito europeo, anche un programma di investimenti sulle tecnologie, funzionale a una convergenza della produzione militare industriale dei vari Stati per colmare le lacune ed evitare inutili duplicati nella spesa militare. Dopo il recente acquisto di F35, la Germania sostiene di puntare ancora su un aereo da combattimento europeo.
Non c’è che dire, le contraddizioni tedesche in questa fase non mancano: acquisto degli aerei statunitensi, ma richiesta di de-escalation sulle sanzioni alla Russia in caso di tregua sul terreno; blocco del gasdotto Nord Stream 2, che bypassa l’Ucraina, ma resistenza alle sanzioni che colpirebbero le forniture di gas russo. Nel frattempo, c’è da segnalare che il cantiere navale tedesco Damen ha scelto il sistema di difesa navale Oto 127/64 Light Weight Vulcano dell’azienda italiana Leonardo, per equipaggiare quattro fregate F126 della Marina militare di Berlino.
Per i nostri Paesi sembra valere il detto “ognuno per sé e Dio (la Nato?) per tutti”. Si consideri che gli europei dispongono di diciassette modelli di carri armati pesanti da combattimento – mentre gli Stati Uniti ne hanno uno solo –, di ventinove modelli diversi di cacciatorpediniere e di fregate – mentre gli Stati Uniti ne hanno solo quattro –, e di venti modelli di aerei da combattimento, mentre gli Usa ne hanno sei. Un anno fa, è stato costituito un Fondo europeo per la difesa, con un bilancio di otto miliardi da consacrare alla ricerca e allo sviluppo dei sistemi di difesa per il periodo 2021-2027: aereo da combattimento, carro armato del futuro, euro-drone. L’intento è di finanziare i produttori europei piuttosto che quelli americani, malgrado le contraddizioni già citate e le rivalità tra le imprese dei vari Paesi.
La spesa militare degli Stati membri dell’Unione europea è già cresciuta del 25%, tra il 2014 e il 2020, raggiungendo i 232,8 miliardi di dollari, 1,5% del Pil. Tutte insieme, le nostre spese per la difesa rappresentano quasi quattro volte la spesa della Russia (pari a 61,7 miliardi di dollari) e sono uguali a quelle della Cina; malgrado ciò, non costituiamo una potenza militare. L’incremento delle spese ha portato alla duplicazione dei progetti e alla moltiplicazione dei costi, mentre l’industria bellica sta approfittando della situazione per indirizzare una parte ancora più consistente dei bilanci pubblici verso il riarmo.
Nei giorni scorsi, i valori delle azioni della francese Thales, della britannica Bae System, dell’italiana Leonardo sono cresciute del 12-14%. In ogni caso, appare evidente che per costituire un esercito europeo, più o meno autonomo dalla Nato, non servirebbero più soldi ma meno, qualora fossero spesi meglio. In Italia è necessario discutere in parlamento, e chiarire se le nostre spese militari sostengono una maggiore autonomia politica per la difesa comune europea, oppure se anche l’Italia, come altri Stati dell’Unione, fa da sé in ambito Nato.
Rimane poi il problema dei problemi, quello di un unico centro politico che decida dove, come e quando impiegare queste eventuali forze armate unificate. Basti citare il caso della Libia, dove i francesi appoggiano il generale Khalifa Haftar e gli italiani il governo di Tripoli, per capire la portata di questo quesito praticamente irrisolvibile almeno nell’immediato.
Al momento, non si prevede dunque la costituzione di un vero esercito comune e le proposte francesi sono da considerarsi in larga misura velleitarie, anche se potrebbero servire da base per un graduale distacco europeo dall’egemonia militare americana. È proprio ciò che teme Washington, che tende a boicottare ogni proposta di difesa europea autonoma. L’Europa può continuare a esistere e ad avere un senso se, e solo se, si porrà al centro di relazioni multipolari, superando la logica dei blocchi. Per costruire su basi più solide un futuro di pace duratura, sarebbe comunque meglio prevedere politiche di prevenzione dei conflitti, di cooperazione e di rafforzamento di una sicurezza comune fondata sulle Nazioni Unite.