“La Stampa” pubblica un articolo che gira intorno all’assassinio di Putin. Nel Paese del “qui lo dico e qui lo nego” il linguaggio dev’essere un altro, specialmente adesso. Il quotidiano torinese, poi, è tra i più schierati in favore dell’Ucraina. L’ambasciatore russo perde la testa e sporge denuncia per istigazione a delinquere e apologia di reato; il gesto diventa un’occasione mediatica. Una fotografia, non si capisce se casuale o maliziosa, ritrae il diplomatico con l’aureola vermiglia di un segnale di sosta vietata, facendone la caricatura di un’icona. La Federazione nazionale della stampa reagisce indispettita e annuncia di voler essere parte civile, ricordando che i giornalisti sono già bersagliati da azioni legali e querele-bavaglio.
Come se non bastassero settimane di violenza, migrazioni forzate, morti e distruzioni, si devono vedere scaramucce in cui il senso delle proporzioni e della realtà sembra un caro ricordo. L’attendibilità della “Stampa” era nota al popolo torinese, anche quando Torino era la Fiat e la Fiat era il movimento operaio. La chiamavano con una parola mezza sprezzante, mezza affettuosa e tutta convinta: la busiarda. La memoria della vecchia ambasciata sovietica a Roma non deve avere lasciato tracce, in quella russa di oggi; eppure è probabile che una parte del personale sia di lungo corso, e l’ambasciatore Razov è un diplomatico di carriera. Se guardassero meglio negli archivi troverebbero, per esempio, che il più famoso fra i padroni storici del quotidiano, Gianni Agnelli, partì volontario nella criminale aggressione italiana all’Unione sovietica, e lo rivendicò come un merito.
Considerando la possibilità concreta di intimorire un giornale importante, e ora allineato su scelte che non vogliono contraddittorio, l’iniziativa dell’ambasciata è più che altro patetica. C’è più Ciajkovskij, che Shostakovich. In fondo, se si volesse dire qualcosa di efficace a proposito della “Stampa”, magari sulle fotografie che pubblica, sarebbe più accorto farlo in modo circostanziato, e il materiale non mancherebbe. Certo, per vedere il materiale bisogna accedere a siti russi: quelli che in Italia, in nome della libera informazione e della democrazia (forse per disposizioni d’autorità, forse per zelo dei gestori telefonici), adesso sono inaccessibili. Chi riesce a consultare quelle pagine, grazie ad altri siti che ripropongono i loro contenuti, riceve dati in controtendenza, come gli effetti di certi bombardamenti fatti dall’Ucraina nel Donbass.
Di iniziative legali strumentali contro i giornalisti scomodi, insomma di querele e citazioni-bavaglio, ce ne sono abbastanza e non c’è bisogno di immaginarle. La Slapp, Strategic lawsuit against public participation – un tema già all’attenzione di “terzogiornale” –, ha caratteristiche precise: a praticarla, specialmente contro le inchieste sulla corruzione e sugli abusi di potere, sono gruppi economici privati, forti, abituati all’irresponsabilità, che usano il manganello legale in ambiti istituzionali e giuridici favorevoli. Una prerogativa tipica dell’arnese è il forum shopping: si sceglie l’autorità giudiziaria di un Paese dove si può avere comodamente ragione, meglio se lontano dall’accusato, fuori della sua portata difensiva. Se l’ambasciatore scegliesse di fare una cosa del genere, forse sporgerebbe querela in Cina. E poi, è difficile vedere una Slapp fatta da uno Stato, davanti ai giudici di una nazione diversa, in cui i mezzi d’informazione rispettabili parlano male proprio di quello Stato.
Contro la giornalista Daphne Caruana Galizia, al momento del suo assassinio, erano pendenti 47 richieste di risarcimento dovute alle sue inchieste. Chi teme persecuzioni giudiziarie ricordi quella donna eroica e tenga presente il trattamento riservato a Julian Assange, un perseguitato vero. Perciò, meglio chiedere alla “Stampa” più misura e lasciar stare le trovate balorde dell’ambasciata russa.
La mossa confusa di Mosca, oltretutto, potrebbe essere frutto di cattivi consigli. Forse sarebbe serio, invece che muovere accuse di istigazione e apologia, riflettere sulle norme che vietano di brigare per l’intervento dell’Italia in una guerra. I “delitti contro la personalità internazionale dello Stato”, nel codice penale che purtroppo ha ancora la firma di Mussolini, ci sono, agli articoli 241 e seguenti: per esempio, c’è il reato di atti ostili verso uno Stato estero che espongono alla guerra o turbano le relazioni internazionali. Escluso che sia questo il caso della busiarda, va detto che sono reati inghiottiti dal dimenticatoio e che le sentenze di Cassazione sono poche. Se mai si formulassero accuse del genere, dovrebbero essere contro larga parte del giornalismo benpensante italiano. E il rimedio non potrebbe essere un maxiprocesso, perché se è vero che l’amore per la pace non si esporta con le armi, neppure si può imporre in casa con le carte bollate, specialmente a chi strizza l’occhio alla guerra.
Quanto al proposito della Fnsi di voler essere parte civile, si entra nell’assurdo. Nei processi penali – uno su questa vicenda è comunque improbabile – non si interviene come parte in favore dell’imputato (c’è la testimonianza, se il giudice la ammette, ma è un’altra cosa). La parte civile di solito è il denunciante o qualcuno a lui vicino, contro l’imputato. Qui, cioè, contro il giornalista della “Stampa” ed eventualmente il direttore. I riferimenti maldestri al sistema giudiziario sono spiacevoli in un’ambasciata, imbarazzanti in un’associazione come la Fnsi, che di solito è accorta e si schiera bene.
Mentre in Ucraina si uccide e si muore, il palcoscenico italiano offre i segni di questi tempi di smarrimento.