Con l’ambiziosa stagione politica battezzata Next Generation Eu è “finita” o è solo “sospesa” l’era dell’austerità in Europa? Attorno a questo interrogativo – che almeno per tutto il 2021 è destinato a rimanere senza risposta – si gioca gran parte della partita che riguarda la capacità del progetto dell’Unione di fronteggiare la serpeggiante ostilità degli elettorati (finora quasi mai maggioritaria, con la significativa eccezione della Brexit) causata dalle scelte degli ultimi decenni, in particolare da quelle seguite alla crisi globale del 2008. Un’ostilità che in alcuni casi ha alimentato la crescita di forze politiche che pur avendo depurato qualche aspetto dell’antico estremismo discendono dalla storia più oscura e violenta della destra europea.
La novità più significativa della terribile stagione della pandemia da Covid 19 è rappresentata dal clamoroso strattone che la crisi ha impresso al dibattito tra gli studiosi, i leader politici e le istituzioni internazionali su quali risposte dare all’emergenza economica globale. Un dibattito che ha investito in questi giorni anche la nuova amministrazione statunitense, dopo che Lawrence Summers, già segretario del Tesoro con Bill Clinton e consigliere economico di Barack Obama, ha criticato l’annuncio di un “Fiscal stimulus bill” da 1900 miliardi di dollari messo in agenda da Joe Biden, agitando addirittura il fantasma dei rischi inflazionistici. Ma un dibattito che in Europa è stato avviato da quasi un anno e ha portato, fra le altre cose, la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde a passare da “non siamo qui per coprire gli spread” al Pepp, il programma di emergenza di acquisto dei titoli pubblici e al sostegno “illimitato” all’eurozona dichiarato in una enciclopedica intervista al Financial Times, nel luglio 2020.
Dopo un primo sbandamento di fronte alla pandemia da Covid 19, quando pareva colpisse quasi esclusivamente alcuni Paesi, la Banca centrale europea, la Commissione e il Consiglio europeo sono quindi riusciti faticosamente a ricucire gli strappi, sotto la regia franco-tedesca ma con un ruolo giocato anche dall’Italia nel suo complesso (non solo per la battaglia del governo Conte sul Recovery Fund: basti pensare al durissimo richiamo del presidente Mattarella dopo la gaffe di Lagarde sugli spread nel marzo 2020).
Non tutte le procedure sono concluse o acquisite (mancano ad esempio alcuni passaggi nei parlamenti nazionali) ma nell’anno della drammatica emergenza sanitaria dalle istituzioni europee sono arrivate, oltre a iniziative comuni sulla pandemia e sui vaccini, la copertura dei debiti pubblici delle nazioni più esposte, i finanziamenti straordinari per difendere i posti di lavoro con il Sure, il Recovery and Resilience Facility (Rrf) da 672,5 miliardi e infine una intesa sul prossimo bilancio pluriennale, il tutto in un quadro che prevede l’emissione di euro-obbligazioni sui mercati da parte della Commissione europea (prima con il programma Sure e l’anno prossimo con il Rrf) e anche la nascita di nuove leve fiscali direttamente a disposizione di Bruxelles.
Le “risorse proprie” che finanziano il bilancio Ue teoricamente senza passare dal Tesoro dei Paesi membri finora erano tre: prelievo sullo zucchero, dazi comuni dell’Unione doganale (l’80%), una percentuale dell’Iva (lo 0,3%). Ora se ne è aggiunta una quarta, la tassa sulla plastica usa e getta, ed è allo studio un ulteriore strumento che dovrebbe essere adottato fra due o tre anni (una tassa sulla CO2 alle frontiere o la cosiddetta tassa digitale – oggetto di tensioni con gli Stati Uniti che potrebbero non scemare nonostante il cambio di inquilino alla Casa Bianca). I finanziamenti del Fondo Rrf sosterranno gli investimenti in settori chiave come la transizione verde, la trasformazione digitale, la preparazione alle crisi, nonché, almeno in teoria, politiche a favore dei giovani e dell’infanzia, quindi risorse per l’istruzione e il welfare.
Ma in che misura queste linee guida per la ripresa economica dopo la pandemia incideranno sul futuro dell’Unione? L’Unione è a un bivio: verso una maggiore integrazione o una “integrazione differenziata”. Sono ambedue strade difficili da percorrere. La prima potrebbe essere seguita se tutto andrà bene: se il piano Next Generation Eu funzionerà per tutti, se la campagna vaccinale del 2021 avrà successo, se si riuscirà a “rimettere in riga” Paesi dalle spinte centrifughe come Polonia e Ungheria. E se, come sembra da alcuni segnali elettorali, la forza dei partiti anti-europei scemerà o i contenuti della contrapposizione con le istituzioni europee si annacqueranno, come pare di poter dedurre dalla fulminea conversione della stessa Lega alla proposta di governo affidata in Italia all’ex presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. In questa prospettiva del successo su tutti i fronti giocheranno un ruolo decisivo anche fattori esterni, il primo dei quali è la presidenza di Joe Biden (per quattro, o otto anni, o magari con un cambio con Kamala Harris) che ha posto fine a quella di Donald Trump, che per anni ha lavorato alla disgregazione dell’unità europea, non riuscendoci più di tanto.
La seconda strada vedrebbe invece prevalere la linea del presidente francese Emmanuel Macron, che da sempre sostiene lo sviluppo di un’Europa a più velocità: come con l’euro, moneta adottata da gran parte dei Paesi membri ma non da tutti. Macron ha tentato questa carta anche nella recente crisi dei veti di Polonia e Ungheria, proponendo di attuare il Recovery Plan senza di loro. E qui c’è una protagonista, la cui uscita di scena annunciata per il settembre del 2021, con le prossime elezioni politiche nel suo Paese, potrebbe far cambiare il vento. Angela Merkel è una ferma sostenitrice del dialogo, del trovare la via per procedere tutti insieme, di pari passo. L’appena eletto leader della Cdu Armin Laschet dovrebbe essere su questa linea ma certo, se diventerà cancelliere, dovrà dimostrare di avere la forza di influenzare i partner che Merkel ha avuto. Se dunque il piano di rilancio non funzionerà appropriatamente per tutti, se i vaccini dovessero riservare brutte sorprese, se Polonia e Ungheria dovessero continuare a mettersi di traverso su tante politiche europee, allora ecco che un’Unione che avanza a più velocità diventerebbe realtà.