Non è di poco conto la partita che si sta giocando in queste ore con Draghi e intorno a Draghi. Ci sarà tra pochi mesi, servita dall’Europa, una torta di oltre duecento miliardi, e tutti ambiscono ad averne, o almeno a gestirne, una fetta. Il punto non è (come sembrano credere alcuni nostri amici e compagni dell’estrema sinistra) la figura di Draghi. In fondo l’ex presidente della Banca centrale europea è pur sempre tra i migliori allievi di Federico Caffè, che fu uno tra i più impegnati economisti keynesiani italiani. È vero che nel frattempo molta acqua è passata sotto i ponti, e che il cocktail tra politiche neoliberiste e “keynesismo privatizzato” – come lo chiama Riccardo Bellofiore, definendo così una spesa pubblica intervenuta negli anni passati soltanto a salvare il salvabile delle banche e delle imprese private – è diventato un beverone insopportabile. Ma non è affatto detto che, dopo la crisi indotta dalla pandemia, si debba ritornare alla precedente austerità europea. Draghi è in fondo – da tecnocrate più o meno illuminato a seconda dei casi – ciò che l’Europa sarà o riuscirà a essere: va considerato una variabile dipendente dall’esito della battaglia tra conservazione e progresso (mettiamola così, usando la vecchia terminologia) che si svolgerà in Europa nei prossimi mesi e anni. A noi italiani resta per il momento solo da evocare i Mani di Caffè (“Professore, ispiralo tu…”), affinché Draghi possa collocarsi su una linea di autentica spesa pubblica keynesiana lasciando da parte qualsiasi imbastardito cocktail neoliberista.
Ciò che preoccupa è il contesto politico, tipicamente italico nella sua stranezza, in cui prende forma il governo Draghi. Occorre certo attendere il programma e la composizione della compagine governativa, ma fin da adesso è possibile esprimere un giudizio nettamente negativo sulla circostanza che, nel tentativo di avere un peso nella spartizione della torta, i sovranisti di ieri (con l’esclusione della Meloni e dei suoi postfascisti) si siano presentati al tavolo già con il tovagliolo al collo e la forchetta in mano. Non erano, fino a poco tempo fa, fieri avversari dell’Europa? Bisogna qui considerare, tuttavia, la peculiarità del populismo regionalistico chiamato Lega che soltanto da non molto si è trasformato in un nazional-populismo. Quella parte di blocco borghese – che include nel proprio disegno politico-sociale moderato le stesse maestranze delle piccole e medie imprese del Nord del Paese –, quella parte di imprenditorialità spesso agganciata alla locomotiva tedesca, non è mai stata contro l’Europa, pur nutrendo molte riserve sulla moneta unica. La leadership affidata a un agitatore nazional-populista come Salvini, va intesa come un espediente per raggiungere una più ampia platea elettorale da parte di forze – sociali prima che politiche – altrimenti chiuse nel loro “profondo Nord”. Quando arriva la torta europea, ecco però che quelle stesse forze, dimenticando un euroscetticismo recente e di facciata, si ripresentano per ottenere la loro porzione.
La questione è che esse mal si conciliano con la riconversione ecologica da mettere in agenda; sono per lo più degli inquinatori di professione che hanno reso, nel corso degli anni, la pianura padana una delle zone più malsane del pianeta. Non sono mai state per una fiscalità progressiva, anzi sono spesso degli incalliti evasori fiscali, e vedono qualsiasi ipotesi di patrimoniale, anche limitata all’emergenza che stiamo vivendo, come fumo negli occhi. Insomma, tutto il contrario di ciò che una politica di centrosinistra, sia pure blanda, dovrebbe voler fare. Allora delle due l’una: o il Pd e la pattuglia di Liberi e uguali si calano le braghe – perdendo così anche qualsiasi possibilità di connessione con quel mondo che, chiedendo maggiore protezione da parte dello Stato, ha scelto nel 2018 il “populismo di centro” dei 5 Stelle –, oppure “per la contradizion che nol consente” il pateracchio con la destra leghista non si può fare. E la cosa andrebbe molto semplicemente comunicata a Draghi.
C’è però un altro ragionamento possibile, l’altro corno del dilemma se vogliamo. Si potrebbe sostenere che, accettando la Lega in maggioranza, si opera per un ritorno di questa formazione alla sua vocazione nient’affatto euroscettica ed estremista. Si lavorerebbe così per il recupero democratico di quelli che potrebbero essere tra breve, nell’assaporare un pezzo della torta, dei soddisfatti ex sovranisti. Non c’è dubbio che questo argomento può rivendicare una sua legittimità. Ma è sbagliato: la Lega giocherà ancora a lungo su due tavoli, regional-populista e nazional-populista, per la semplice ragione che quest’ambiguità è pagante dal punto di vista elettorale. Inoltre, siamo proprio sicuri che lasciare il monopolio dell’opposizione di destra alla Meloni e ai suoi non sia peggio che avere un abbaiatore come Salvini, scarsamente capace di fare politica, come competitore principale?
C’è poi un’ultima considerazione. Renzi ha aperto la crisi di un governo gettato nell’immobilismo da diversi mesi – nell’incertezza di gestione della seconda fase dell’epidemia iniziata dopo l’estate – per stringere un legame con le piccole componenti centriste presenti in parlamento e soprattutto con Forza Italia, di cui aspira a ereditare i voti. Il vero continuatore del berlusconismo, infatti, è lui. C’è già la sua ipoteca su un disegno neocentrista che divida la destra. Che bisogno ci sarebbe di una sinistra o di un centrosinistra che agiscano con lo scopo di tirare un po’ meno a destra la Lega? Nel caso di una nuova legge elettorale di tipo proporzionale, con uno sbarramento, Renzi inevitabilmente farà blocco con Forza Italia alle elezioni – e sarà da vedere se nel prossimo parlamento potrà poi essere davvero quell’ago della bilancia che aspira a essere. Non c’è dunque alcuna ragione per cui le forze di sinistra o di centrosinistra, il cui problema è piuttosto quello del rapporto con i 5 Stelle, seguano Renzi nel suo disegno e rinuncino a essere sé stesse.