Non avranno suscitato sorpresa, ma i risultati delle elezioni di domenica 13 marzo consegnano un Paese diverso da quello della vigilia. Sebbene si votasse per il rinnovo di 108 senatori e 188 deputati alla Camera, l’attenzione dei trentanove milioni di colombiani ammessi al voto si è giocoforza polarizzata sulla novità delle primarie di ciascuna delle coalizioni, organizzate per scegliere il proprio candidato alla carica di presidente il 29 maggio, con la subordinata di un secondo turno il 19 giugno, se nessuno dei concorrenti avrà ottenuto il 50% più uno dei voti.
Telegraficamente, i risultati hanno sancito che per la prima volta uno schieramento di sinistra sarà la maggiore forza in parlamento, che il candidato progressista, Gustavo Petro, con 5,7 milioni di preferenze alle primarie ha doppiato i voti ottenuti dai candidati della destra e del centro, e che il Centro democrático dell’ex presidente Álvaro Uribe, l’unico in passato a essere eletto presidente al primo turno, è crollato da prima a quinta forza parlamentare, segnando, se non la fine, di certo un profondo malessere dell’uribismo.
Lo stesso Uribe, che avrebbe potuto far pesare il ruolo che ancora molti a destra gli riconoscono, non era candidato, dato che nell’agosto del 2020 la Corte suprema aveva ordinato, in via preventiva, i suoi arresti domiciliari per corruzione e manipolazione di testimoni, costringendolo ad abbandonare il seggio di senatore. E non è stato nemmeno troppo presente nella campagna a favore del suo partito, travolto da scandali di decenni e dalla pessima gestione del suo successore, Iván Duque.
Il risultato del Centro democrático alle legislative non ha quindi sorpreso, confermando, per l’ennesima volta, il trend latinoamericano che, dallo scoppio della pandemia, vede penalizzato il partito al governo, contro il quale si era diretto il malcontento sociale attraverso le massicce proteste di piazza degli ultimi anni, duramente represse. Non ha destato sorpresa neppure quello di Federico “Fico” Gutiérrez, ex sindaco di Medellín, che ha vinto le primarie della destra presentandosi con Equipo por Colombia. Un esito che lo conferma come il probabile candidato che potrà in qualche modo contrastare Petro, nel caso – probabile – si andasse a un ballottaggio. Su di lui sono confluiti i voti di Uribe e di Duque, e ciò lo potrà far percepire, nel bene e nel male, come in continuità con l’uribismo.
Considerato che i colombiani hanno votato Uribe o un suo candidato dal 2002 in poi, il risultato di domenica appare quindi netto nella sua novità, anche se, a livello parlamentare, il risultato consegna uno schieramento frammentato, all’interno del quale Petro, che si rivela il vero fenomeno elettorale in un paese sfiancato dal Covid-19, con una disoccupazione del 15%, e afflitto dalla violenza successiva agli accordi di pace con le Farc, dovrà fin da subito cercare alleanze per poter essere eletto alla presidenza ed eventualmente governare. Tanto più che le elezioni non hanno per nulla cancellato partiti tradizionali come il Partido liberal e il Partido conservador, i cui seggi, qualora venissero sommati a quelli ottenuti dalla destra, darebbero a quest’ultima la maggioranza al senato.
Domenica era presente anche l’area moderata con Centro esperanza, raccolta di politici e intellettuali non omogenei, tenuti insieme dalla volontà di sottolineare il proprio distanziamento dagli estremi. I circa due milioni e mezzo di preferenze riversati alle primarie su Sergio Fajardo, ex sindaco di Medellín, come candidato alle presidenziali, assegnandogli il terzo posto dopo Petro e Fico, potrebbero essere oggetto di attenzione da parte del candidato di sinistra, che ha bisogno di ben altri voti per vincere al primo turno.
Di certo, dopo domenica, Petro, con il suo Pacto histórico “Colombia puede” – coalizione composta da partiti e movimenti progressisti e socialdemocratici, nata nel febbraio dell’anno scorso – rimane il favorito in una elezione presidenziale che, fin da ora, spacca il Paese tra sinistra e destra. Attivissimo nei social, Petro ha riscosso il frutto del suo distanziarsi dalle élite tradizionali e della sua volontà di rompere con il passato, accentuando la sua attenzione alla tutela ambientale. Viene da una famiglia in cui la politica è sempre stata presente, con suo padre sostenitore del politico conservatore Laureano Gómez, e di Che Guevara allo stesso tempo, mentre la madre era una militante della Alianza nacional popular (Anapo), il movimento capeggiato dal generale Gustavo Rojas Pinilla. Si forma attraverso letture politiche che lo avvicinano alla sinistra, passando da posizioni marxiste a idee basate sulla teologia della liberazione, finché, nel 1977, ancora minorenne, entra nella guerriglia di M-19, un gruppo che si batteva per un nazionalismo rivoluzionario e lo sviluppo di un socialismo alla colombiana. Passa quindi dall’università alla clandestinità, finché il presidente Belisario Betancur (1982-86) apre ai colloqui di pace con la guerriglia, che finalmente viene firmata nel 1990.
Questo offre a Petro la possibilità di cambiare vita. È a Bruxelles come rifugiato e all’Università cattolica di Lovanio. La sua esperienza europea gli fa scoprire un mondo differente, e lo porta a riflettere sulla difficoltà di perseguire lo sviluppo economico in armonia con la tutela dell’ambiente. Una riflessione che spesso invece mancherà ai vari leader del “socialismo del Ventunesimo secolo”, che hanno governato o ancora governano Paesi dell’America latina, violentando il proprio ambiente.
Finalmente, torna in Colombia nel 1997, e inizia la sua vita pubblica impegnandosi con la sinistra che lo eleggerà al Senato, dove si distingue come voce critica contro la speculazione nella compravendita delle terre, per la sua lotta contro la corruzione, che critica anche quando colpisce il Polo democrático, partito a cui appartiene.
Uscito dal Polo democrático, nel 2012 è eletto sindaco di Bogotá per Colombia humana, una nuova organizzazione di sinistra che si autodefinisce socialdemocratica, progressista ed ecologista. La sua amministrazione della capitale si caratterizza per la grande attenzione al sociale. Petro sceglie di mescolare strati sociali differenti in zone cittadine, una politica che viene accolta male dai ricchi. Mentre, riguardo al grave problema della sicurezza cittadina, non basa la sua politica sulla sola repressione della devianza, ma attiva un ampio processo di costruzione cittadina, che prevede lo smantellamento delle bande di strada attraverso il sostegno e il lavoro. Con questa strategia, nella città di Bogotá, circa diecimila giovani hanno abbandonato il furto per lo studio, mentre il varo di politiche sociali, a favore delle persone che vivono per strada, ha consentito alla capitale colombiana, secondo i dati dell’Onu, di ridurre la povertà dal 12% dei tempi dei governi della destra al 4,7%.
Tuttavia, dopo soli due anni, Gustavo Petro viene destituito dalla carica di sindaco dalla procura generale, perché il deputato uribista Miguel Gómez Martínez raccoglie le firme necessarie contro di lui a causa di una mal gestita vicenda legata alla raccolta della spazzatura. Viene quindi dichiarato decaduto dal suo incarico e inabilitato ad assumere cariche pubbliche per quindici anni. Misure in seguito cancellate dalla magistratura, che l’ha reincorporato sulla spinta dell’appoggio popolare e della Commissione interamericana dei diritti umani.
Ora, davanti gli si apre la strada in salita per la presidenza, già tentata in passato senza fortuna. L’elemento nuovo è che la situazione generale appare cambiata: il che farebbe pensare che qualche chance in più stavolta ci sia. Dopo il Cile di Boric – e in attesa di un cambio l’ottobre prossimo in Brasile, dove Lula è favorito –, una vittoria di Gustavo Petro in Colombia cambierebbe la geografia politica dell’America latina.