Sulle nostre coste gli accessi liberi al mare sono pochi, e per lo più affollati. Una condizione che sorprende i turisti europei che raggiungono o tentano di raggiungere le nostre spiagge. Il sussiegoso supplemento viaggi della “Zeit”, qualche anno fa, già lamentava l’inaccessibilità e i prezzi altissimi della fruizione del mare italico. La colonizzazione da parte di stabilimenti, ristoranti e intraprese varie è infatti pressoché completa. Secondo i dati resi disponibili dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, relativi al 2020, sulle nostre coste insistono ben 52.619 concessioni demaniali marittime, delle quali addirittura 11.104 sono relative a stabilimenti balneari, 1.231 a campeggi, circoli sportivi e complessi turistici, mentre le restanti sono distribuite su vari utilizzi: pesca e acquacoltura, diporto e varie attività produttive.
La questione non è nuova: risale infatti molto indietro nel tempo, e in alcuni casi precede addirittura la scoperta postbellica della vacanza di massa. Ci sono “stabilimenti” balneari che possono vantare un’esistenza quasi secolare, dato che erano già attivi negli anni Trenta del Novecento. Il fenomeno però è diventato massiccio negli anni Cinquanta e Sessanta, quando la scoperta della vacanza marina raggiunge masse sempre più consistenti, e schiude un’epoca nuova nell’estate degli italiani. Al tempo stesso, per molti, la concessione si trasforma in una facile occasione di guadagno, dato che gli affitti pagati al demanio per lo sfruttamento delle spiagge sono inizialmente piuttosto modesti. La colonizzazione delle spiagge va in questi anni a braccetto con la “rapallizzazione”, cioè la cementificazione delle coste con la costruzione di seconde case e di villaggi vacanze. In alcune realtà, e in maniera clamorosa lungo il litorale laziale, in Sicilia e in Calabria, l’avanzata degli stabilimenti si sovrappone e a volte si fonde con la lunga stagione dell’abusivismo.
Nei decenni successivi, al boom economico e alla trasformazione delle abitudini della “villeggiatura” si forma una sorta di corporazione dei concessionari, una lobby potente e ramificata che cerca di condizionare le scelte politiche riguardo a una questione per molti versi spinosa da affrontare, che riguarda le logiche con cui le concessioni vengono attribuite e con cui vengono stabiliti i canoni di affitto. Canoni che in molti casi rimangono irrisori e legati alla congiuntura degli anni Sessanta in cui erano stati sommariamente definiti, e vengono aggiornati solo periodicamente. A lungo la politica preferisce non toccare lo status quo e la decisione sul da farsi viene continuamente rinviata, mentre i rinnovi delle concessioni procedono pressoché in automatico, anche per il supporto diretto di alcuni partiti ai “balneari”. Si distinguono, per l’appoggio alla lobby, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega, che si oppongono alle gare di aggiudicazione, e il cui sforzo congiunto di trovare una sistemazione alla materia conduce alla legge Centinaio del 2018, che proroga addirittura le concessioni esistenti fino al 2033. Anche perché la Unione europea ha smosso le acque fin dal 2006, quando la direttiva Bolkestein ha richiamato la necessità di promuovere una “selezione tra diversi candidati”, segnalando che dev’essere un’autorità pubblica a definire i criteri di affidamento, e a scegliere tra diverse proposte, dato che il diritto europeo considera il bene sia sotto il profilo economico sia quale mezzo per l’erogazione di un servizio.
Emergono dunque esigenze di parità di trattamento e trasparenza richiesti già dai principi di libera circolazione previsti dai trattati europei, al fine di garantire la concorrenza e, con essa, la necessità di regolari gare d’appalto; ma al tempo stesso si propone anche la questione di coloro cui i servizi sono destinati. Pur da una prospettiva interamente liberista, la direttiva Bolkestein introduce la tematica dei fruitori del bene “spiagge”, che vanno anch’essi tutelati.
Il tema è andato acquisendo, inoltre, ulteriore complessità negli ultimi anni, in cui non solo il dibattito sui beni comuni ha riproposto il problema dell’accesso al mare e della fruizione di un bene pubblico quali le spiagge, ma anche le trasformazioni del turismo, in chiave di una sempre maggior consapevolezza, e la diffusione sui social network della offerta turistica hanno reso sempre più importante e spesso decisiva la trasparenza nella comunicazione, e la possibilità di una valutazione complessiva delle proposte. Insomma l’intera e stratificata struttura delle concessioni appare ormai non solo discutibile e iniqua, sotto il profilo giuridico, ma anche anacronistica e poco funzionale sotto quello economico.
Per questo insieme di motivi, e per evitare la procedura di infrazione europea derivante dal mancato rispetto della Bolkestein, il governo Draghi ha de facto imposto, lo scorso febbraio, una riforma della situazione, facendo votare alla unanimità, dalle forze politiche che lo sostengono, un decreto che limita le proroghe previste dalla legge Centinaio alla fine del 2023. Entro due anni, dovrebbe quindi aversi l’apertura delle gare di aggiudicazione, anche se questo vorrà dire dovere fare i conti con un complesso contenzioso riguardante chi, nel corso degli anni, ha costruito strutture ed edifici su pezzi di litorale pubblico, e implicherà una valutazione accurata delle diverse situazioni cui decenni di proroghe hanno condotto. I “balneari” dal canto loro, venuto meno improvvisamente l’appoggio di partiti che li avevano a lungo sostenuti, stanno scegliendo la via della protesta di piazza, anche se al loro interno si profilano divisioni e posizioni diverse tra le diverse sigle che li rappresentano. La via italiana alla riconquista delle spiagge perdute appare perciò ancora complessa, irta di difficoltà tecniche e politiche. Le fanciulle tedesche dovranno attendere ancora, prima di potersi bagnare liberamente nei nostri mari.