Difficile organizzare idee razionali sotto fatti emotivamente forti come quelli di questi giorni. Si rischia di farsi travolgere dalle passioni, dalle emozioni, che sarebbe più giusto chiamare in-mozioni, con riferimento a ciò che il mondo esterno ci fa esplodere dentro. Proverò così a liberarmi della rabbia che ho dentro, respirando in profondità. Limitandomi a esporre un pensiero “freddo”. Ma della mia rabbia devo dire che c’è, e riguarda chiunque tifi per la pace pacifista o la guerra bellicista, ma con il sacrificio degli altri, dal suo sofà. Siccome io, personalmente, sono figlio di un partigiano combattente, deportato in Germania, devo premettere che queste due tifoserie sono lontane da me.
Il mio pensiero “freddo” non può che partire da una parola che non possiamo bandire dal nostro vocabolario, perché corrisponde a qualcosa di reale: la parola è “terrorismo”. Creando la famosa war on terror i neoconservatori, ai tempi di George W. Bush, ne hanno fatto un’ideologia. Arrivando ad ammettere danni, ma “danni collaterali”, mentre si combatteva quella war on terror. Le vittime civili non erano più vittime, ma, appunto, danni collaterali. I terroristi poi non venivano uccisi, ma “eliminati”. La storia di chi per tanti motivi finiva nella loro rete apocalittica è stata rimossa a priori, sempre. Questo punto di vista non può esserci, perché comunque “terrorista”. Ciò ha giovato al terrorismo ideologico, che esisteva, esiste e sceglie l’Apocalisse, l’idea di creare uno scontro sempre più forte e totale da condurre alla fine del mondo, e quindi alla giustizia divina.
Questa ideologia ha usato il nichilismo di chi, nella sua rabbia, era pronto a farsi usare da chiunque pur di dare risalto alla sua voglia di violenza, di distruzione. War on terror: c’è un mondo impazzito, tra Apocalisse e distruzione dell’altro, in questa espressione.
Quando è intervenuto in Siria, Putin si è impossessato della war on terror. Quel brevetto dei neoconservatori americani è passato di mano. Ogni eccidio, ogni strage, ogni città spianata, tutto è stato giustificato nel nome della lotta al terrorismo. È andata bene. Un popolo intero, di milioni e milioni di persone, è diventato per l’opinione pubblica mondiale un popolo di terroristi che difendere non aveva né senso né logica.
Si arrivò così alla deportazione di massa, dopo l’assedio di Aleppo e successivamente della Goutha orientale: centinaia di miglia di sopravvissuti, 400mila solo nel secondo caso, dopo essere stati per mesi senza vitto e senza medicine, furono deportati soprattutto nell’estremo nord della Siria, a Idlib. Questa deportazione serviva a liberare le città dalla popolazione sgradita al regime di Assad, ma anche a proseguire il conflitto, spostandolo. Accanto alla popolazione civile vennero trasferiti a Idlib anche i combattenti islamisti, in tutta sicurezza. Servivano come il pane per tenere in tensione quei territori con l’interlocutore turco, e per giustificare la campagna per riportare sotto il controllo del regime anche quei territori, sempre con la motivazione della lotta al terrorismo.
Questo schema spiega perché i corridoi umanitari non sono applicabili, dal punto di vista russo, all’Ucraina. Qui la guerra non è al terrorismo, ma a un suo nuovo omologo, il “nazismo ucraino”, e c’è l’urgenza di “denazificare” quel popolo. Se si lasciassero fuggire i “nazisti”, si darebbe loro un volto umano, sofferente. Così facendo, si darebbe all’Ucraina uno spunto di possibile propaganda antirussa. Mentre a Idlib non può andarci nessuno, e nessuno ci va, a sentire i motivi e i problemi raccontati in arabo da musulmani che ce l’hanno con Putin e Assad, questo mare di profughi sarebbe di bianchi, europei, cristiani, arrabbiati con Putin e basta. Può sembrare logico che sia Kiev a impedire i corridoi umanitari, per tenere la propria presenza nelle città contese. Ma non sembra che sia così. Lasciare fuggire quella gente sarebbe un errore, che a mio avviso Mosca farà solo con il contagocce. Il motivo per cui i corridoi umanitari, per Mosca, possono avere luogo solo verso la Russia sembra questo: evitare che i profughi diventino un’arma di propaganda, o testimonianza, contro la Russia di Putin.
Putin ha perso le sue prime opzioni: l’ingresso trionfale e la vittoria facile. Rimane ora lo scenario di portare in Ucraina quei metodi impiegati e sperimentati in Siria, con i bombardamenti a tappeto e la distruzione totale, ma lontano dai media. In Ucraina, però, non sarebbe così. Lì i media ci sono e non sarà la Russia a poterli allontanare. Oltre a questo, rimangono due altri scenari: o un accordo che dia a Putin quel che già aveva, il Donbass e la Crimea, con l’aggiunta di una promessa neutralità militare, o l’estensione del conflitto ad aree attigue. Nel frattempo, il Medio Oriente e il Nord Africa potrebbero prendere facilmente fuoco, e questo potrebbe creare nuove tensioni, preoccupazioni, paure, allontanando l’attenzione di tutto il mondo dalla sola Ucraina. Consentendo un diverso negoziato. Ma l’importante oggi è pensare alle persone, quelle vere. Questo dice la storia, per me.