Lo ripetiamo da giorni che la guerra è dentro i confini dell’Unione europea. Dovremmo dire vicino più che dentro. Ma lavorano da noi quasi duecentocinquantamila ucraini, soprattutto donne. Sentiamo i loro lamenti, vediamo la loro disperazione. E adesso sono già seicentomila gli ucraini fuggiti dal loro Paese, profughi in una Europa che li deve accogliere e assistere.
Lo abbiamo già detto, scritto. Con il passare delle ore stiamo danzando sull’orlo del baratro. Noi vorremmo che la guerra semplicemente non si combattesse. E invece sentiamo i missili esplodere sui palazzi, distruggere vite umane, civili, bambini. E poi le mitragliatrici, i colpi secchi dei fucili. La fuga, il coprifuoco, lo sterminio degli innocenti, gli scaffali vuoti dei supermercati. E le linee ferroviarie fatte esplodere, le strade insicure.
Vorremmo che tutto questo non ci coinvolgesse, come fanno ogni giorno gli ipocriti ed egoisti dei Paesi opulenti o anche solo insensibili. E in Europa ce ne sono tanti. A partire da quell’Ungheria e Polonia che, di fronte al fiume di siriani disperati, hanno alzato muri di vergogna, respingendo quel popolo in fuga dalla guerra.
Non è vero che c’è guerra e guerra. Che ci sono profughi e profughi, disperati e disperati. Vorremmo dire al presidente del nostro governo, Mario Draghi, che si sta sbagliando, che il tempo del dialogo non è finito. Vorremmo gridare le ragioni di Putin, che ha diritto di rivendicare sicurezza, di sentirsi minacciato dai missili ostili della Nato. Ma oggi non le vediamo queste ragioni.
Oggi assistiamo alla crudeltà della guerra di un despota.
Incollati alla televisione, per la prima volta ci siamo commossi nel vedere gli applausi sinceri, veri, dei parlamentari europei quando si è attivato il collegamento video con il presidente Zelensky, presidente democraticamente eletto da un popolo che elettoralmente ha schiacciato all’angolo i nazisti. Oggi non siamo in grado di rispettare i tempi, come se le lancette dell’orologio non potessero accelerare. Lo sconvolgimento della realtà potrebbe riservarci una diversa scrittura della storia. Inimmaginabile, fino a oggi.
Siamo in guerra anche noi, anche l’Europa. E questa consapevolezza ci atterrisce. Come per altre guerre abbiamo offerto solidarietà in aiuti umanitari ai profughi salvati, oggi per l’Ucraina stiamo offrendo le armi per fronteggiare il nemico. Il solo evocarlo ci porta a dovere ammettere che anche noi abbiamo dichiarato guerra a Putin. E non solo con le rappresaglie economiche.
Stiamo attraversando il fiume della ragione, quando la ragione non abita più in quella terra disgraziata dove c’è la morte, la fuga dalla morte. E noi non possiamo essere insensibili al richiamo della vita, a cercare di proteggere gli innocenti. Avremmo voluto accontentarci dei corridoi umanitari. Ma oggi è troppo tardi.
I russi avvertono i civili di allontanarsi dalle infrastrutture di comunicazione. È come togliere la vista a chi vede, trasformando un popolo in talpe che scavano nella profondità delle viscere della terra per mettersi in salvo.
Che orrore, la guerra. Non possiamo scegliere da che parte stare, stiamo con le vittime della guerra.