Dopo che l’esercito di Mosca si è impossessato del sito della centrale nucleare di Chernobyl, sembrerebbe – secondo le autorità ucraine – che il livello delle radiazioni gamma sia aumentato a causa del passaggio dei mezzi pesanti russi, che avrebbero smosso la terra in superficie e sollevato polvere radioattiva nell’aria. Potrebbe trattarsi di polveri di cesio 137, un elemento che rimane radioattivo per trent’anni. Il portavoce della Difesa russa ha sostenuto, invece, che le sue truppe stanno proteggendo “l’impianto per evitare ogni provocazione”, e ribadito che i livelli di radioattività sono normali. Sembra essere una falsa la notizia che i combattimenti abbiano provocato danni agli impianti di stoccaggio delle scorie nucleari. Gran parte del materiale fossile degli altri reattori sarebbe al sicuro.
Ma il problema, in Ucraina, concerne anche altre quattro centrali nucleari con i loro quindici reattori, tra i quali i sei reattori di Zaporižžja, che sono i più direttamente esposti, come riferisce Yves Marignac dell’associazione NegaWatt. Mentre scriviamo (27 febbraio), in questa città di più di settecentomila abitanti, situata nel Sud-est dell’Ucraina, sulle rive del fiume Dnepr, sono in corso violenti combattimenti. Un bombardamento può in ogni momento scatenare un incidente che sarebbe difficile contenere, stante che gli operatori dovrebbero operare in un contesto di conflitto armato, un evento tanto più catastrofico per le popolazioni per le quali le misure di protezione sarebbero di difficile attuazione. Nessuno dei belligeranti ha interesse a provocare danni agli impianti nucleari che produrrebbero il rilascio di radiazioni; ma potrebbe sempre accadere un errore involontario nei tiri missilistici o nei bombardamenti.
Facendo la tara delle strumentalizzazioni informative delle parti in conflitto, come europei dell’Est e dell’Ovest, non possiamo che essere preoccupati dalla minaccia nucleare messa allo scoperto da questo evento bellico, ricordando sia il disastro del 1986, il più grave della storia del nucleare, sia la disseminazione in tutto il continente di reattori nucleari.
L’incidente che provocò duecentomila vittime
Il complesso elettrico di Chernobyl è situato in Ucraina a 130 km da Kiev e a 20 km dal confine con la Bielorussia; la popolazione presente all’epoca dell’incidente in un raggio di 30 km era di 115.000-135.000 persone. Il 26 aprile del 1986, secondo la puntuale ricostruzione di Grazia Pagnotta in Prometeo a Fukushima. Storia dell’energia dall’antichità a oggi (Einaudi 2020), la combinazione di un insieme di fattori e di errori umani provocò un incidente nucleare di massima gravità, in cui il reattore fu distrutto in pochissimo tempo, con la peggiore condizione incidentale possibile: la fusione del nucleo a cielo aperto. L’incidente accadde all’unità 4, di notte, tra le ore 1,00 e 1,24. Vi furono due esplosioni a distanza di pochi secondi. Il fumo, i prodotti radioattivi della fissione e i detriti arrivarono fino a 1.000 metri di altezza; i detriti più pesanti caddero vicino al sito, ma i componenti più leggeri, compresi i prodotti di fissione e un numero indefinito di gas furono portati dal vento verso Nord-ovest. Ciò che rimaneva della costruzione ospitante il reattore 4 s’incendiò, con ulteriori nuvole di vapore e polvere; prese fuoco anche il tetto dell’adiacente sala turbina. L’incidente causò il più grande rilascio radioattivo, originato non da ordigni bellici, che durò una decina di giorni. Due radionuclidi furono particolarmente significativi per la dose di radiazioni che distribuirono, lo iodio-131 di breve durata e il cesio-137 di lunga durata. Si dovettero spostare duecentoventimila persone dalla zona contaminata.
Gli istanti successivi al disastro di Chernobyl resero tragicamente famosi i “liquidatori”, che pagarono un pesante prezzo in vite umane: diverse centinaia di persone tra soldati e tecnici inviati nella centrale ancora fumante, nel tentativo estremo di spegnere l’incendio.
Arrivarono centinaia di pompieri che si occuparono del reattore, ma anche dell’incendio in corso che poteva propagarsi alle altre tre unità contenenti gli altri reattori, e a tutte le altre aree del sito dove erano presenti molti materiali altamente infiammabili. I veri interventi sul reattore furono effettuati nei giorni seguenti. Fu deciso di impiegare gli elicotteri, inviati dalla Siberia(a 4.000 km di distanza da Chernobyl) per riversare centinaia di tonnellate di sabbia, piombo, argilla e boro direttamente sul reattore rimasto esposto. La strategia era semplice: ricoprire la ferita nucleare esposta (in seguito racchiusa dal famoso “sarcofago” in cemento, ora ricostruito in acciaio) per evitare la fuoriuscita di radiazioni e impedire all’incendio di riprendere fiato.
Dopo l’intervento dei pompieri nei primi giorni, gli elicotteri scaricarono sul nucleo incendiato circa 5.000 tonnellate di sostanze per estinguere le fiamme e limitare il rilascio di particelle radioattive. Servirono 1.800 voli. I primi lanci furono effettuati ad elicottero fermo sul reattore, ma i tassi di radiazioni ricevuti dai piloti erano troppo alti, così si decise di scaricare i materiali mentre l’elicottero era in transito. Un’altra operazione fu l’installazione di un sistema di apporto di azoto freddo allo spazio del reattore, per raffreddare e coprire l’ossigeno; alla data del 6 maggio la temperatura del nucleo e il tasso di rilascio di radionuclidi risultavano diminuiti. Un altro intervento fu la collocazione, sotto il reattore, di una massiccia lastra di cemento armato con un sistema di raffreddamento, che doveva servire per raffreddare il nucleo e come barriera per impedire la penetrazione di materiale radioattivo nel sottosuolo; per collocarla, fu scavato un tunnel in quindici giorni con il lavoro di circa quattrocento persone.
I costi umani furono altissimi, tra i vigili del fuoco e gli elicotteristi, nonché tra le maestranze edili. I calcoli sui morti a causa delle radiazioni, nei mesi e negli anni successivi, fu complesso, e ancora oggi i dati sono in discussione: le stime variano a seconda dei parametri scelti. I dati delle previsioni su tempi lunghi dell’Aiea, di circa 4.000 morti, sono stati ritenuti troppo cauti; e i decessi in Ucraina, Bielorussia e Russia, che si potranno considerare, sono stati stimati più numerosi, al di sopra di duecentomila, sia da uno studio pubblicato dall’Academy of Sciences di New York, sia da un altro effettuato da una cinquantina di scienziati di questi tre Paesi, pubblicato da Greenpeace nel 2006.
Come viene garantita la sicurezza attuale degli impianti a Chernobyl?
Sul sito di Chernobyl tutti i quattro reattori sono attualmente fermi, ma nelle “piscine” è stoccato molto combustibile nucleare. Le “piscine” servono per il raffreddamento del materiale nucleare di cui era anche stato avviato il trasferimento di una minima parte, pari a circa il 20% del totale, verso un deposito a secco. Più di 20.000 metri cubi di scorie solide e liquide sono inoltre depositate nel sito della centrale, secondo un comunicato del 25 febbraio scorso dell’Irsn (l’istituto pubblico francese che si occupa di radioattività e sicurezza nucleare): scorie che provengono sia dall’incidente del 1986 sia dal funzionamento degli altri tre reattori, la cui attività è proseguita fino al 2000. Il reattore numero 4, quello che si è fuso nel 1986, dopo essere stato seppellito sotto un “sarcofago” provvisorio, la cui tenuta strutturale era dubbia, fu ricoperto nel 2017 da un altro sarcofago di cemento e acciaio (una struttura larga 250 metri, lunga 160 e con un’altezza di 100 metri).
Attualmente, anche sotto il controllo dell’esercito russo, 92 tecnici ucraini continuano a monitorare il sito. Il personale dovrebbe però lavorare a turno, per non essere esposto eccessivamente alle radiazioni. Il problema più inquietante, secondo Karine Herviou dell’Irsn citata da “Mediapart”, potrebbe derivare dalla rete elettrica, qualora fosse interrotta per via dei combattimenti: interruzione che potrebbe pregiudicare il raffreddamento dell’acqua delle “piscine”. La temperatura dell’acqua potrebbe raggiungere all’incirca i 60 gradi senza evaporare.
Questo per il passato e il presente di Chernobyl. Ma l’invasione russa dell’Ucraina, se ha definitivamente sepolto l’età dell’innocenza per milioni di europei che non avrebbero mai creduto di dover assistere a un’altra guerra sull’uscio di casa, li costringe anche a rivalutare la politica energetica, che in molti Paesi del nostro continente si affida al nucleare.
Un’Unione europea piena di centrali (potenziali bombe) nucleari
Le nazioni dell’Unione europea che hanno sul proprio territorio centrali nucleari operative sono ben tredici: Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Germania, Finlandia, Francia, Olanda, Romania, Slovenia, Spagna, Slovacchia, Svezia e Ungheria. L’Italia possiede quattro centrali disattivate. Molte delle scorie radioattive del nostro Paese sono depositate anche presso l’Enea, a pochi chilometri dal centro di Roma.
A fine 2020, nell’Unione europea, erano presenti 122 reattori nucleari e sei erano in costruzione. La maggior parte, 116 unità, si trovavano in sette Paesi. La Francia ne possiede da sola ben 56, e uno è in costruzione. Recentemente, il presidente Emmanuel Macron ha promesso una forte espansione del programma nucleare nazionale. La Germania, invece, vuole abbandonare il nucleare, spegnendo otto reattori e limitando l’operatività degli altri sei che cesseranno la loro attività tra pochi anni, anche se lo smantellamento delle centrali potrà durare fino al 2040.
Critica la situazione dei paesi dell’Est dove – come riferisce Andrea Walton su “Linkiesta” del 26 febbraio scorso – tutti e sette i Paesi nucleari prevedono che i propri reattori supereranno i sessant’anni di vita, e alcuni hanno annunciato il lancio di nuovi progetti che dovrebbero essere completati entro il 2030. La Bulgaria ha approvato la realizzazione di una settima unità presso la centrale di Kozloduy. L’Ungheria costruirà un nuovo reattore presso il suo impianto di Paks, mentre in Slovacchia due nuovi reattori, il 3 e il 4, andranno ad arricchire il sito Mochovce. Il nuovo governo della Repubblica ceca, dove sono già presenti sei reattori, ha riferito di voler abbandonare il carbone in favore del nucleare, grazie alla finalizzazione di un piano per la costruzione di un nuovo reattore e delle risorse rinnovabili. Bucarest ha adottato una nuova strategia energetica che prevede il raddoppio della capacità nucleare della Romania, con la costruzione di due nuove unità presso la centrale di Cernavoda. In Estonia, il primo ministro Katja Kallas è favorevole alla costruzione, in un prossimo futuro, del primo impianto atomico del Paese.
Il 10 febbraio scorso, il presidente francese ha annunciato una svolta nella politica energetica con il rilancio del nucleare per “riprendere il controllo del nostro destino energetico”. Si tratta, innanzitutto, di prolungare la vita dei reattori esistenti oltre i cinquant’anni; si rinuncia alla chiusura di dodici reattori, già prevista tra il 2025 e il 2035, e decretata da Macron nel 2018 per ridurre l’incidenza del nucleare nel mix energetico francese al 50%; la Francia non chiuderà nessuna centrale e la quota del 50% sarà riesaminata nel 2023, mentre si punta alla costruzione di sei nuovi reattori Epr 2, con altri otto reattori allo studio. I cantieri inizieranno nel 2028, e l’entrata in funzione del primo reattore è prevista per il 2035. I siti previsti non sono stati citati.
Non sorprende, dunque, che la Commissione dell’Unione europea, sulla spinta dei Paesi nuclearisti, abbia inserito il nucleare nelle fonti di energia valide per la transizione ecologica, la cosiddetta “tassonomia verde”, aprendo la strada al suo finanziamento. In Italia, la Confindustria e il ministro Cingolani hanno, nei fatti, appoggiato tale scelta, cercando di bypassare la volontà popolare espressa nei due referendum del 1987 e del 2011. Per la sicurezza europea, la battaglia pacifista di queste ore si deve dunque intrecciare con la lotta contro il nucleare civile, foriero di potenziali catastrofi future.