Difficile criticare gli Stati Uniti e l’Europa per le pesanti sanzioni annunciate contro la Russia per avere invaso il territorio ucraino, rompendo gli accordi di Minsk e mirando, ormai sempre più chiaramente, a un’annessione della regione orientale del Donbass, com’è avvenuto con la Crimea nel 2014. Un regime, per quanto abbia al suo vertice qualcuno che avvelena i propri oppositori o dissidenti in giro per il mondo, non può violare impunemente il diritto internazionale senza pagarne le conseguenze. C’è da chiedersi piuttosto se le sanzioni saranno efficaci. Sarebbe ingenuo sorvolare sulla circostanza che l’Europa, la Germania e l’Italia in particolare, sono dipendenti dal gas che arriva dalla Russia. Si pone ora come una questione urgentissima quella necessaria transizione energetica, più in generale ecologica, che taluni vorrebbero risolvere con il nucleare, fingendo di non sapere che – a parte ogni altra considerazione di merito – la costruzione di nuove centrali richiederebbe alcuni anni.
Nel quadro di una pandemia per nulla ancora veramente domata, e di un’inflazione che ha rialzato la testa, un dirigente senza scrupoli ha pensato bene di aggravare la situazione internazionale dando fiato alle trombe dell’espansionismo territoriale. Come al solito, in casi come questi, sarebbe da vedere quanto la galvanizzazione dei rapporti politici, mediante una scossa militare, sia utile a Putin e alla sua cerchia per rinsaldare il consenso. La guerra è anzitutto una droga nazionalistica mediante cui un regime mira ad affrontare problemi interni. Tanto più quando ci si colloca palesemente nel paradosso di dichiarare di non volere la Nato alle proprie frontiere – il che sarebbe un obiettivo da raggiungere attraverso l’iniziativa diplomatica –, e contemporaneamente si invade un Paese che, a quel punto, solo nella Nato potrebbe trovare un appoggio. Con la mossa militare, si fornisce così all’Alleanza atlantica – che non avrebbe più ragion d’essere – un valido pretesto per continuare a esistere e a espandersi.
Il nodo del Donbass, poi, che da anni vede i separatisti filorussi decisi a staccarsi dall’Ucraina, andrebbe risolto con un’ampia autonomia da concedere a quella regione. Un modello sarebbe quello dei rapporti tra l’Italia e l’Austria a proposito del Sud Tirolo. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, in quello che per noi è l’Alto Adige, ci fu una serie di attentati terroristici a firma di gruppi secessionisti. La potenziale bomba fu disinnescata grazie alla negoziazione pacifica. È l’Onu la sede privilegiata per trattare questioni del genere. Ma ciò presupporrebbe un atteggiamento diverso della Russia, che in via preliminare dovrebbe rinunciare a qualsiasi volontà di annessione, o anche di supervisione, su quella parte di territorio ucraino. Ciò viene rifiutato al momento da Putin, che considera l’Ucraina parte integrante della storia russa. Se, su questa base ideologica, si tendesse a negare che l’Ucraina possa avere una vita nazionale propria, o si volesse renderla qualcosa di simile all’attuale Bielorussia, ciò vorrebbe dire che si vuole la guerra e nient’altro.
Fermare le avventure belliche è da sempre il compito della diplomazia internazionale. La via degli accordi fu tentata perfino con Hitler. Non ci si riuscì, perché con il nazionalsocialismo non era possibile alcuna trattativa. Ma certamente Putin non è Hitler. E la via diplomatica, unita a una fermezza nelle sanzioni, è oggi l’unica disponibile.