La questione del sistema elettorale sembra essere tornata all’ordine del giorno: ma, in molti casi, l’approssimazione imperversa. “Proporzionale” o “maggioritario”? In realtà, queste due etichette, senza altre specificazioni, dicono poco o nulla. Molti commentatori si muovono seguendo alcune tesi che, a mio parere, sono del tutto fuorvianti. Anche Guido Ruotolo, nel suo articolo pubblicato su “terzogiornale”, parla di “un ritorno al passato”, e mostra di assumere come scontato il fatto che il “ritorno al proporzionale” sia funzionale ai disegni neocentristi dei vari “cespugli” che si agitano sulla scena politica, cercando di occupare questo spazio (assumendo, di converso, che il “maggioritario” assegnerebbe agli elettori il “potere” di scegliere chi governa, o spingerebbe al “bipolarismo”). Inoltre, Ruotolo attribuisce questo “ritorno” al proporzionale a una qualche “nostalgia” della cosiddetta “prima Repubblica”: non è la sede per discuterne quanto meriterebbe, ma personalmente comincio a essere piuttosto stufo di questa demonizzazione, e mi proclamo nostalgico, sì, ma positivamente di questa famigerata fase della storia politica italiana. E sarebbe tempo anche di una diversa periodizzazione storica, che alcuni studiosi iniziano peraltro a proporre, secondo cui la “prima Repubblica” si chiude con il rapimento e l’assassinio di Moro (non con “Mani pulite”), valutando invece gli anni Ottanta come un decennio di progressiva degenerazione del sistema politico e gli anni 1989-1994, propriamente, come una fase di “transizione”.
Tornando alla riforma elettorale, ovviamente si possono avere idee e preferenze diverse a questo proposito, ma non si può prescindere dai fatti e, soprattutto, occorre fare un po’ di pulizia concettuale. E allora diciamo questo: da un lato, sistemi propriamente “maggioritari” sono solo il modello francese (doppio turno di collegio) e quello britannico (a turno unico), ma come sappiamo, in presenza di contesti istituzionali molto diversi, che non assicurano affatto, automaticamente, la famosa governabilità (in Francia garantita dal semipresidenzialismo, ma a costo di una grave debolezza del parlamento); dall’altro, tutti i modelli elettorali che appartengono alla famiglia dei sistemi proporzionali comportano una qualche distanza da una mera rappresentazione speculare del voto, sulla base di molte variabili: le soglie di accesso, i meccanismi di attribuzione dei seggi, i quozienti più o meno corretti e il metodo del loro calcolo, l’ampiezza delle circoscrizioni, la previsione o meno di un recupero nazionale dei “resti”, ecc. Si passa così dai sistemi più “puri” (per esempio, quello olandese, senza soglia formale, ma comunque con una soglia implicita, dato il numero limitato dei membri del parlamento), a quelli più “disproporzionali”, come quello spagnolo (o come quello portoghese, che la settimana scorsa ha permesso ai socialisti di Costa di ottenere il 51% dei seggi con il 42% dei voti).
Tutte questioni “tecniche” che il grande pubblico, naturalmente, ignora e forse non ha nemmeno bisogno di capire: l’essenziale, per l’elettore, è capire come il proprio voto concorra a eleggere la rappresentanza e quali siano le condizioni essenziali per questa elezione. In Germania, per esempio, gli elettori sanno che c’è una soglia di accesso del 5%; ma sanno anche che, avendo a disposizione due voti, uno di lista e uno per un collegio uninominale, questa soglia è “aggirabile” se un partito vince almeno in tre collegi (come accaduto nelle recenti elezioni alla lista Die Linke, che ha ottenuto il 4,8% sul piano nazionale, ma ha potuto avere ugualmente una propria presenza al Bundestag).
E i sistemi italiani? In Italia abbiamo avuto un vero sistema “misto”, ossia la legge Mattarella, con la quale abbiamo votato dal 1994 al 2001 (veramente “misto”, perché l’elettore poteva dare due voti distinti, su due schede diverse); e poi abbiamo avuto sistemi ibridi, frutto di un abborracciato bricolage elettorale: sistemi proporzionali con un “premio” e il vincolo di coalizioni pre-elettorali (il Porcellum), e poi un vero e proprio monstrum (l’attuale Rosatellum) con un voto unico, un terzo dei seggi assegnati in collegi maggioritari e due terzi in circoscrizioni proporzionali; un sistema, quest’ultimo, che – come i fatti hanno mostrato – non ha certo garantito una qualche “governabilità”. Sistemi, dunque, spacciati per “maggioritari”, ma che di fatto hanno incentivato la frammentazione, la formazione di coalizioni fasulle, che hanno esaltato il potere marginale, il potere di ricatto, di tutti i micropartiti personali
Alcuni sostengono che bisognerebbe ispirarsi al modello dei sindaci, che sarebbe quello che “meglio” ha funzionato: ma è una grande e pericolosa sciocchezza, mi si consenta di dirlo francamente! È del tutto evidente, infatti, che il doppio turno usato nei Comuni è possibile solo perché è prevista l’elezione diretta di una carica amministrativa: trasporre questo modello per il parlamento e il governo significherebbe cambiare tutta l’architettura della nostra Costituzione e orientarsi per una forma di presidenzialismo: legittimo, ma che lo si sappia e lo si dica! Non si può derubricare una riforma siffatta a una semplice questione di legge elettorale!
Sono molti, e tra questi chi scrive, che stanno fortemente sostenendo la necessità di una riforma in senso proporzionale, senza per questo avere alcuna nostalgia della “palude” centrista. Perché è necessaria una riforma di questo tipo, e più precisamente un proporzionale con una soglia di accesso al 4% o al 5% (di questo si sta discutendo, questa la proposta del Movimento 5 Stelle e di Leu, e questa sembra la proposta prevalente anche nel Pd)? La risposta è semplice: non certo da solo, ma un sistema proporzionale è l’unico modo per cercare di frenare la dissoluzione del sistema politico italiano; ricostruire e rilegittimare la rappresentanza; cercare di riportare in primo piano le diverse tradizioni di cultura politica presenti nella società italiana, obbligando tutte le formazioni politiche a ridefinire una propria autonoma identità; riallineare e articolare la politica lungo l’asse destra/centrosinistra, e non sulla base di un fittizio e forzato “bipolarismo”.
E a tutte queste virtù potenziali se ne può aggiungere un’altra, ossia cercare di innalzare la qualità del discorso pubblico. Una ricostruzione del sistema dei partiti su basi coerentemente proporzionali (con le conseguenti implicazioni per le campagne elettorali) potrebbe essere un primo passo per frenare un imbarbarimento del discorso pubblico, in quanto potrebbe bensì indurre tutte le forze in campo a delineare un proprio autonomo profilo, ma, nello stesso tempo, anche a indicare la possibile compatibilità con i programmi altrui. L’opposto di quanto accade con i sistemi “a premio”, in cui gli elettori sono spesso spinti a pronunciarsi solo contro lo schieramento avverso. Cercare un punto di equilibrio tra l’autonomia e la specificità delle proprie posizioni e la possibile compatibilità con i programmi altrui costringerebbe partiti ed elettori a guardare anche nel merito delle possibili politiche da perseguire e sui necessari punti di compromesso per rispondere a esigenze diverse. Insomma, si potrebbe aiutare a ricostruire un’idea alta e nobile della mediazione politica, laddove oggi, insopportabilmente, tutto viene letto in chiave di “inciucio”.
E dunque, speriamo che sia colta la “finestra di opportunità” che sembra si possa aprire per questa riforma. C’è da dire che alcuni esponenti politici stanno mostrando in questi giorni di avere le idee chiare. Per esempio, Andrea Orlando, in un’intervista (“La Stampa”, 2 febbraio), ha detto: “Penso che abbiamo sperimentato come le coalizioni siano una presa in giro nei confronti degli elettori. Non ce ne è stata una che finora abbia resistito (…). Bisogna pensare a un sistema elettorale che permetta di far nascere nuove coalizioni, non sulla base di un meccanismo coercitivo, ma della condivisione di un percorso. (…) L’obiettivo è far respirare le forze politiche, che parlano al proprio elettorato. Senza la ‘truffa’ del premio di maggioranza che viene conquistato e poi spartito”.
Sul piano legato alla più stretta attualità politica, vorrei chiedere poi a Ruotolo: ma perché la sinistra dovrebbe temere che, con un sistema proporzionale (con adeguata “soglia” di accesso), si coaguli un’area centrista? Che interesse ha la democrazia italiana a ricompattare un blocco di destra dalla forte egemonia nazionalista e xenofoba? Non è più sano articolare la politica italiana tra una destra, un centro conservatore ma moderato ed europeista, un centrosinistra, una sinistra?
E infine, perché mai, in una democrazia parlamentare come la nostra, non potremmo riprendere gli insegnamenti che provengono dalla Germania? Nessun partito tedesco, prima delle elezioni di settembre, era vincolato a una coalizione precostituita: il tema delle possibili soluzioni di governo era certamente oggetto del dibattito politico, e durante la campagna elettorale le varie forze hanno dichiarato affinità e incompatibilità del proprio programma rispetto a quelli altrui; ma che ci potessero essere diverse combinazioni di governo, dopo le elezioni, era ben chiaro a tutti,e gli elettori hanno votato per la loro rappresentanza (solo sei gruppi presenti al Bundestag) e per definire i rapporti di forza che poi avrebbero consentito la formazione di una possibile maggioranza. È l’abc della democrazia parlamentare: perché in Italia non potremmo fare altrettanto?