I rapporti dell’Argentina e dell’intera America latina con il Fondo monetario internazionale storicamente sono sempre stati da problematici a incandescenti. La sinistra, e il movimentismo nazionalista in tutte le sue numerose declinazioni, vedono l’Fmi come il braccio finanziario della dominazione imperialista. Il ruolo determinante che vi esercitano gli Stati Uniti – fin dalla fondazione nel secondo dopoguerra, soci principali del maggiore istituto di credito multinazionale del mondo – ai loro occhi ne è un’evidente conferma. Sebbene nei decenni trascorsi, e soprattutto negli ultimissimi tempi, immagine e prassi reale del Fondo siano evolute, dall’immaginario popolare – ma anche da quello politico latinoamericano – non è stato cancellato lo stigma dell’usura. E in Argentina non lo ha fatto neppure l’odierno scampato pericolo di un nuovo default.
Questa breve memoria è opportuna al fine di comprendere lo scossone politico, finanziario e di opinione, prodotto in sequenza attorno allo scorso fine settimana, in Argentina, dall’improvvisa notizia dell’intesa raggiunta dall’attuale governo del presidente Alberto Fernández (peronista) con il Fondo sul pagamento del debito straordinario contratto, nel secondo semestre del 2018, dall’allora governo di Mauricio Macri (neoliberista). Si tratta del credito più grande mai concesso (55mila milioni di dollari nella formula stand-by), di cui 44mila milioni in tempi rapidissimi e del tutto inusuali.
Le condizioni dell’indebitamento, fin da subito ritenuto impagabile da quasi tutti i più autorevoli economisti negli Stati Uniti e in Argentina, suscitarono enorme scandalo. Inasprito dalla voce, ritenuta comunemente attendibile, che a renderlo possibile era stato l’intervento di Donald Trump, amico di famiglia ed ex socio in affari della famiglia del presidente argentino Macri, e soprattutto pressato dai grandi fondi di Wall Street, che stavano perdendo milioni nella crisi argentina e cercavano una via di ritirata.
Non senza qualche buon argomento anche giuridico, il debito venne dichiarato illegittimo dall’allora opposizione peronista, che ne fece una bandiera nella campagna elettorale vittoriosa che ha portato Alberto Fernández – e la sua vicaria, l’ex presidente Cristina Kirchner – con la coalizione Frente de todos alla Casa Rosada. Ben si capisce, quindi, l’assenza di qualsiasi tono trionfalista nell’annuncio del capo dello Stato riguardo all’intesa raggiunta dopo un estenuante negoziato, in cui l’Argentina ha ottenuto innegabili miglioramenti nei numeri e nei tempi di pagamento. Evitando la ricetta tradizionale del Fondo: cioè l’immediata e drastica riduzione del deficit di bilancio (oggi poco sopra al 5%), che avrebbe implicato un drammatico taglio della spesa sociale e degli investimenti necessari al recupero della produzione e dell’occupazione dopo la devastazione dei mesi della pandemia.
La ristrutturazione del debito, però, passa ovviamente per il suo riconoscimento, che risulterebbe perfino ridotto proporzionalmente al prolungamento dei tempi (del totale rimasto insoluto, la prima rata scivolerebbe al 2024, così come verrebbe scaglionata la riduzione del deficit di bilancio). Comunque l’Argentina s’impegna a pagare. E uno sgarro al Fondo può comportare l’ostracismo del banking internazionale pubblico e privato, quanto meno di quello occidentale di cui, bene o male, il grande Paese sudamericano è parte, tanto da essere socio dell’Fmi. Un’economia esportatrice non se lo può permettere. Né il viaggio che il presidente si appresta a fare in Cina e in Russia, anche quando aprisse fonti di credito aggiuntive, potrà offrire soluzioni alternative tanto immediate quanto nel futuro prossimo, essendo i suoi obiettivi di natura essenzialmente commerciale.
Per prassi oltre che per norma, una volta che l’accordo con il Fondo sarà definito formalmente, dovrà essere ratificato dal Congresso di Buenos Aires. È per questo che la rinuncia da capogruppo della coalizione di governo alla Camera dei deputati –annunciata da Maximo Kirchner, il figlio maggiore del defunto presidente Nestor, e dell’ex presidente e attuale vice Cristina – ha provocato al capo dello Stato un certo imbarazzo. Potrebbe darsi il paradosso che l’opposizione approvi, e parte dei governativi respinga l’accordo. Nella lettera ufficiale di dimissioni, Maximo ricorda di aver dissentito apertamente dall’apertura di una trattativa con il Fondo, che per di più adesso definisce priva della determinazione e del coraggio necessari. Per non coinvolgere la madre (a sua volta notoriamente contraria), Maximo scrive che lei ha tentato di dissuaderlo, come del resto lo stesso presidente. Sta di fatto che la borsa e la parità della moneta nazionale, il peso, ne hanno immediatamente subito un contraccolpo.
Come in ogni governo di coalizione, il capo deve esercitare una sintesi che non si discosti eccessivamente dalle posizioni di tutte le sue componenti. In questo caso, il partito di Maximo e Cristina, la Campora, è con ogni probabilità il fattore numero uno, sia per l’intensità della militanza sia per l’apporto elettorale. Se l’espressa contrarietà di Maximo, e quella tacita ma nota della vicepresidente, non celano un disegno occulto, finiranno per alimentare la consueta e non di rado turbolenta dialettica interna. Dev’essere questo il convincimento, o quanto meno la speranza, di Alberto Fernández. Diversamente, si aprirebbe per il Paese e per lui un periodo di particolare difficoltà e di incalcolabili rischi. Né Cristina né suo figlio hanno infatti indicato alternative compiute e ragionevolmente percorribili all’accordo siglato con il Fondo, che comporta indubbiamente degli oneri.
Nella foto: Maximo Kirchner