Sembra che sulla questione ucraina Olaf Scholz sia finora riuscito a scontentare tutti. Di certo gli alleati della Nato, che hanno ritenuto opportuno rafforzare la loro presenza e ribadire la linea adottata con la conferenza congiunta del 25 gennaio a Berlino, durante la quale un muscolare Emmanuel Macron ha affermato che “in caso di aggressione all’Ucraina ci sarà una risposta e il prezzo sarà molto alto”; mentre Scholz, pur confermando in linea di massima la sua adesione alla posizione francese, ha voluto prudentemente aggiungere che “è necessario lavorare a una soluzione mediante un dialogo bilaterale”.
La “Frankfurter Allgemeine”, il giorno seguente, ha sottolineato che questi colloqui tra leader europei “avvengono troppo tardi”; e che le relative debolezze di una Germania con un governo inedito, la cui tenuta è tutta da valutare, e di una Francia con le prossime elezioni, probabilmente le più confuse della sua storia, hanno condizionato pesantemente la valutazione dei tempi di sviluppo della crisi ucraina. Ora si starebbe cercando, in tutta fretta, di “rimettere un piede nella porta” nel momento in cui le cose stanno precipitando. Anche i media russi, del resto, non hanno apprezzato, e parlano di incoerenza e di “irresolutezza” della leadership europea, che renderebbe difficile avanzare nelle trattative. Proprio questa incertezza europea finirebbe per rendere pericolosa una situazione in cui la Russia – come ha sostenuto l’agenzia “Novosti”, commentando l’incontro di Berlino – è unicamente alla ricerca di garanzie sulla sua sicurezza e di interlocutori affidabili.
Certo è che mai gli alleati della Nato sono apparsi così divisi. La posizione tedesca – finora estremamente cauta, fino a smarcarsi completamente sulla questione della fornitura di armi all’Ucraina, facendo gridare al tradimento il sindaco di Kiev, Vitali Klitschko – è motivata da un insieme di ragioni. Se la stampa internazionale ha messo l’accento sull’importanza del gas russo – che fornisce oggi oltre la metà del fabbisogno energetico tedesco, e il cui uso dovrebbe essere ulteriormente implementato per raggiungere l’obiettivo della fuoriuscita dal carbone entro il 2030, soprattutto dopo che Scholz, a Parigi, ha accettato lo scambio tra il “nucleare verde” francese e il “gas verde” tedesco –, in realtà la partita che la Germania gioca in Ucraina è molto più ampia, ed è di portata storica.
Esistono infatti altri fattori condizionanti. L’opinione pubblica tedesca è da tempo divisa rispetto al giudizio da dare sulla Russia: c’è addirittura chi la vede positivamente, e c’è chi ritiene che l’attuale fronteggiamento con la Nato sia solo un lascito della guerra fredda, una sorta di provocazione orchestrata dagli americani. Orientamento questo che è anche alimentato da media finanziati dai russi. Propaganda, mezze verità e fake news, oggi in moltiplicazione, sono in realtà attive da tempo, con lo scopo di dividere il fronte avversario, strumenti di una guerra ibrida in corso non da ieri.
Ma c’è un’ulteriore componente che contribuisce ad alimentare le riserve e le esitazioni tedesche sulle modalità con cui contrastare l’aggressività della Russia: a lungo il dibattito sulla sicurezza interna della Germania si è basato sul fatto che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la situazione pareva essere oggettivamente migliorata. Si poteva dunque pensare di vivere in una condizione di buon vicinato con la Russia, coronando una serie di ambizioni divenute legittime sui Paesi a Est, realizzando finalmente un progetto di influenza regionale già presente in nuce nella Ostpolitik.
Solo dopo la doccia fredda del 2014 e l’occupazione della Crimea, ci è resi conto che le regole del gioco erano cambiate, e che il conflitto con il potente vicino aveva assunto aspetti completamente diversi dal passato. Si cominciava a profilare una guerra di tipo nuovo, appunto “ibrida”, che si presentava sotto le mentite spoglie di un conflitto interno ucraino, e si alimentava di un insieme di tecniche e di strumenti che mescolavano guerra e pace, informazione e disinformazione. C’è voluto tempo per capirlo, come ha mostrato la lunga riluttanza del cancellierato Merkel ad assumere posizioni dure intensificando le sanzioni contro la Russia.
Inoltre, il radicamento nel Paese di una consistente tradizione pacifista – non solo postbellica, ma dalle ascendenze ben più remote – ha condotto molte forze politiche, tra cui quelle oggi al governo, a reagire come in preda a una sorta di scomposto horror vacui ogni volta che si parla seriamente di armamenti e di guerre, come mostrano molto bene le dichiarazioni recenti di Annalena Baerbock, mai apparsa così volatile e inadeguata al suo fresco ruolo di ministra degli Esteri come negli ultimi giorni. L’idea, a lungo coltivata dai tedeschi nel secondo dopoguerra, di procedere in politica estera secondo un Zivilmachtkonzept, perseguendo cioè una posizione da potenza civile, che mira a una risoluzione dei conflitti in cui si minimizzi l’utilizzo della violenza e si veda il ricorso a norme e a organismi sovranazionali, per quanto possa apparire nobile e condivisa da molti politici e da generazioni che sentono ancora il peso di un’eredità terribile, rischia però di risultare tragicamente inadeguata a far fronte alle mutate condizioni e al frangente attuale.
Se i tedeschi vogliono stabilizzare la situazione di durevole pericolo che si è creata alle porte di casa, devono chiarire i loro obiettivi e i loro strumenti di intervento e consolidare il loro ruolo nel tracciare un percorso di collocazione geopolitica del Paese che sia valido per l’Europa intera. Da questa crisi, quali ne siano gli sviluppi, la politica estera tedesca uscirà molto trasformata; e il ruolo giocato dalla Germania riunificata andrà nel suo complesso ripensato profondamente all’interno della stessa Unione europea. Il rischio è che questo ripensamento giunga troppo tardi.