Tra consenso e rivolta. In Tunisia il colpo di Stato dello scorso 25 luglio messo in atto dal presidente Kaïs Saïed comincia a suscitare un malcontento importante, sia pure in un contesto in cui il capo dello Stato gode ancora del 72% dei consensi da parte di una popolazione che aveva salutato con favore lo scioglimento di un governo corrotto e la sospensione dei lavori parlamentari, oltre che il blocco a tempo indeterminato dell’attività della magistratura.
Durante queste ultime settimane, nel Paese, si sono moltiplicate le rivolte contro il regime, la cui repressione, come ha denunciato Ennahda – il principale partito d’opposizione di ispirazione fondamentalista – e l’associazione “Cittadini contro il colpo di Stato”, ha provocato la morte di un manifestante, deceduto in ospedale lo scorso 19 gennaio, a causa delle ferite riportate cinque giorni prima nel corso delle manifestazioni.
La preoccupazione per una possibile, e anzi ormai evidente, deriva autoritaria si manifesta così nel Paese. Le elezioni promesse sono state rinviate al prossimo dicembre. E alcuni decreti presidenziali parlano chiaro sulle intenzioni del capo dello Stato: “Il presidente – recita uno dei testi – esercita il potere esecutivo con l’aiuto di un Consiglio dei ministri presieduto da un capo di governo”. Oppure: “Il presidente della Repubblica presiede il Consiglio dei ministri e può dare mandato al capo del governo di sostituirlo”. Un quadro che Saïed ha mascherato lo scorso 11 ottobre con un vero e proprio coup de théâtre. Caso unico nel panorama arabo, e raro anche nei Paesi occidentali, veniva nominata una donna premier, l’ingegnera, nonché docente universitaria, Najla Bouden Romdhane, e ben otto ministre su un totale di ventiquattro componenti del governo. Certamente un avvenimento storico, che vedrà tuttavia la premier avere scarsi margini di manovra.
L’intenzione di Saïed è insomma quella di superare la Costituzione del 2014, successiva alla “rivoluzione dei gelsomini” che aveva deposto l’allora presidente Zine el-Abidine Ben Ali e dato vita a un modello istituzionale ibrido, a metà strada tra presidenzialismo e parlamentarismo. Modifiche che non prevedono allo stato attuale delle cose nessuna assemblea costituente. E che sono inserite, invece, in un contesto caratterizzato da misure antidemocratiche come il divieto di manifestare.
A battersi contro questa deriva, è sempre Ennahda che denuncia la morte di un suo esponente, Ridha Bouziane, ucciso dopo un pestaggio da parte della polizia. Imed Khemiri, portavoce dell’organizzazione, ha chiesto l’apertura di “un’indagine seria” sulla sua morte. Ennahda, prima forza politica in parlamento, è particolarmente attenzionata dal regime, in virtù di possibili legami con ambienti terroristici islamisti. Una persecuzione confermata anche dall’arresto di Noureddine Bhairi, ex ministro della Giustizia, e di Fathi al-Baladi, che nel 2011 ha lavorato come consigliere dell’ex ministro degli Interni, oltre che dell’avvocata Said al-Akrami. Un brutto quadro che ha allarmato l’Alto commissariato delle Nazioni Unite (Unhcr), una cui delegazione all’inizio del mese ha fatto visita a Bhairi, ricoverato in ospedale dopo avere intrapreso uno sciopero della fame che ha ulteriormente debilitato le sue già precarie condizioni di salute.
L’Agenzia dell’Onu ha chiesto il rilascio degli oppositori o, in alternativa, l’incriminazione formale, secondo gli standard del diritto penale. Una richiesta, insomma, di legalità a fronte del verificarsi di episodi oscuri quali rapimenti, sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie. Modalità repressive che non si vedevano dai tempi dell’era di Ben Ali, deposto nel 2011.
La politica del regime nei confronti del dissenso è chiara: un abuso della legislazione antiterrorismo, e il ricorso ai tribunali militari per processare i civili. A rendere instabile la situazione del Paese, è anche la grave crisi economica. Purtroppo, come sottolinea il quotidiano arabo “al-Arab”, la rivoluzione del 2011 non ha contribuito a risollevare un’economia debole, resa ancora più precaria da questi due anni di pandemia, e che sta conoscendo la peggiore recessione dal 1956, anno dell’indipendenza dalla Francia del Paese nordafricano.
L’aiuto del Fondo monetario internazionale è finalizzato alla realizzazione di riforme: il che significa riduzione dei salari soprattutto all’interno del pubblico impiego, dove gli stipendi, secondo l’organismo economico internazionale, sono tra i più alti nel mondo in rapporto al reddito medio della popolazione. Una misura che però comporterebbe un inevitabile aumento della tensione sociale, oltre che l’opposizione della Unione generale tunisina del lavoro. E non basta la lieve ripresa del 3% a fronte di un tasso negativo del 9% a risollevare un’economia aggravata da una disoccupazione che viaggia intorno al 15%.
Questa instabilità interna fa il paio con quella di una regione in cui è la Libia a destare maggiori preoccupazioni. La data delle elezioni, previste un mese fa, che avrebbero dovuto pacificare un Paese ancora diviso in due – il governo di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni Unite e sostenuto dalla Turchia, e quello della Cirenaica riconosciuto dagli Emirati arabi uniti e dall’Egitto –, dopo essere state spostate da dicembre allo scorso 24 gennaio, hanno conosciuto un nuovo rinvio entro la fine di giugno di quest’anno.
La difficoltà nel mettere la parola fine al conflitto libico ha reso complicato i rapporti tra Tripoli e Tunisi, le quali però hanno riaperto lo scorso anno i confini, facilitando così l’ingresso dei cittadini da entrambe le parti in un contesto relazionale definito forte e solido, necessario nel quadro della pandemia che rende decisiva la collaborazione tra i due Paesi, motivata anche dalla necessità di fare fronte al pericolo derivante dall’estremismo fondamentalista, ancora presente e minaccioso a Tunisi, e dalla questione della gestione del flusso migratorio proveniente dall’Africa subsahariana.
C’è poi il versante algerino che vede i due Paesi confinanti rafforzare le proprie relazioni diplomatiche con la “dichiarazione di Cartagine”, attraverso cui sono stati rafforzati i rapporti commerciali e politici tra i due Paesi. Lo scorso dicembre Tunisi aveva ospitato il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune per “rilanciare – secondo quanto riferito da Algeri – la cooperazione bilaterale in molteplici campi d’interesse, per pervenire a una integrazione economica e a prospettive comuni”.
Insomma la Tunisia di Kaïs Saïed è stata capace di tessere ottimi rapporti con i vicini, giocando, insieme con l’Algeria, un ruolo positivo nella possibile risoluzione del conflitto libico. Godendo ancora di un importante consenso interno, sarà difficile pensare a un ridimensionamento del presidente tunisino, che i Paesi vicini non avrebbero alcun interesse a ottenere. Diversamente dall’Europa (Francia e Italia in particolare) che – in ragione delle preoccupazioni per la gestione dei migranti, da un lato, e grazie gli aiuti economici necessari a un’economia in affanno, dall’altro – potrebbe spingere il presidente a rispettare l’impegno di indire libere elezioni e a limitare la pericolosa deriva autoritaria in atto.