Domenica 6 febbraio il Costa Rica elegge presidente, vicepresidente e rinnova i cinquantasette seggi dell’Assemblea legislativa, i cui mandati di quattro anni inizieranno l’8 maggio prossimo. Se, come pare probabile, nessuno dei candidati otterrà il 40% al primo turno, sarà ballottaggio il 3 aprile tra i due che avranno avuto più voti.
Poco più di tre milioni e mezzo di elettori dovranno scegliere tra il maggior numero di aspiranti alla massima carica nella storia del paese, dato che sono venticinque i partiti che hanno deciso di far correre un proprio candidato. Ancora maggiore è invece il numero dei partiti che cercano di far eleggere propri rappresentanti al parlamento, ben trentasei. Sarà anche utile ricordare che la costituzione del Paese non consente una seconda elezione consecutiva al presidente in carica, per cui Carlos Alvarado che era stato eletto per il Partido acción ciudadana, formazione di centrosinistra, non ha potuto ripresentarsi.
Il Costa Rica va alle elezioni in un contesto in cui il Covid-19 ha determinato importanti effetti socio-economici che potrebbero influenzare il risultato delle presidenziali. E ci va in mezzo a una crisi sanitaria, e nel culmine di una nuova ondata provocata dalla variante Omicron. Il più importante di questi effetti è certamente quello della disoccupazione che nell’ottobre del 2020 ha raggiunto una percentuale del 21,9%, con 544mila persone senza impiego. Mentre attualmente i disoccupati sono 450mila su una popolazione che supera di poco i cinque milioni di abitanti.
Ne consegue che il tema del lavoro è risultato essere il problema principale per una fetta consistente della popolazione durante la campagna elettorale. Inoltre, com’è successo in altri Paesi, polemiche hanno suscitato alcune misure restrittive, in tema di prevenzione del contagio, introdotte dal governo e la decisione di rendere obbligatorio il vaccino.
Oltre a ciò, di sicuro avranno un peso sulle scelte elettorali le politiche promosse dal governo in tema di riforma fiscale decise per affrontare il grave deficit di cui il paese soffre da decenni. Esse sono all’origine delle grandi manifestazioni di protesta e degli scioperi generali più lunghi della storia del Costa Rica, che in buona parte hanno riguardato il mondo dell’educazione, dopo l’approvazione, nel 2018, del cosiddetto Plan Fiscal.
Non è un caso che uno degli slogan di maggior successo della campagna sia stato “Basta tasse”, chiara allusione alla riforma tributaria voluta dalla formazione di centrosinistra Acción ciudadana, che in seguito al prestito di 1750 milioni di dollari del Fondo monetario internazionale, necessario a stabilizzare le finanze, si è trovata costretta a tagliare spese e aumentare il carico fiscale. Altro tema agitato in campagna, soprattutto da parte della destra, è stato quello dell’immigrazione, con l’obiettivo di abolire lo ius soli che riconosce automaticamente la cittadinanza costaricense a chi nasce nel paese.
È di qualche giorno fa l’ultimo sondaggio sulle intenzioni di voto, i cui risultati vedono il socialdemocratico José Maria Figueres del Partido liberación nacional (18,2%) e il pastore evangelico Fabricio Alvarado di Nueva republica (18,1%) leggermente davanti a Lineth Saborío del Partido unidad social cristiana, ex vicepresidente dal 2002 al 2006 (15,8%). Forse qualche vantaggio può venire a Figueres dalla sua esperienza di governo, essendo già stato presidente dal 1994 al 1998. Tutti e tre sono comunque dati in crescita rispetto al sondaggio precedente.
Seguono, a maggiore distanza, gli altri ventidue candidati, tra i quali l’avvocato José Maria Villalta del Frente amplio, la formazione di sinistra, che avrebbe una percentuale del 4,9%, mentre Rodrigo Chaves del Partido progreso social democratico otterrebbe il 4,5. Tutti gli altri otterrebbero un risultato intorno all’uno per cento, o da prefisso telefonico.
Merita ricordare la recente uscita del liberista Fabricio Alvarado, candidato di Nueva republica, che ha denunciato come “negli ultimi anni i venti del comunismo stanno colpendo ogni volta più forte i paesi vicini al Costa Rica e minacciano la nostra società”. Una presa di posizione con la quale ha chiesto agli elettori di non dare il voto al rappresentante del Frente amplio Villalta, cresciuto nelle ultime settimane nei sondaggi, accusato dall’esponente di destra di voler seguire le ricette “di Chávez, Maduro, Ortega e Fidel”.
Di sicuro una impennata in una campagna generalmente giudicata fiacca, scolorita, senza passione da parte degli stessi candidati e dei partiti che li sostengono. Alta la percentuale degli indecisi che, secondo i vari istituti demoscopici, vanno dal 36 al 52%: il che rende incerto il risultato, anche in considerazione di quanto è accaduto nei due precedenti appuntamenti elettorali, in cui candidati che per i sondaggi non avevano chance, sono passati al ballottaggio e addirittura hanno vinto. Tanto che Welmer Ramos, candidato di Acción ciudadana, al quale vengono riconosciute poche chance, cercando spazi televisivi, ha ricordato che “quattro anni fa quasi si è commesso l’errore di non invitare chi è oggi presidente” ai dibattiti allora organizzati.
L’astensionismo fisiologico potrebbe pesare attorno al 30%, in un Paese in cui tutto sommato vanno in molti a votare, e in cui non esiste una forza politica o elettorale anti-neoliberale che sia forte e strutturata. Pressoché assente la critica del modello economico neoliberale, se si eccettua la testimonianza di John Vega, insegnante di scuola secondaria e candidato alla presidenza per il Partido de los trabajadores che spiega il suo progetto come “una necessità collettiva che abbia una voce socialista, rivoluzionaria, della classe lavoratrice”. L’ultimo sondaggio gli concede lo 0,1% dei voti, ma c’è pure chi sta peggio di lui, come Roulan Jiménez fermo allo zero.
Il corpo elettorale vede in maggioranza le donne, e gli elettori di età superiore ai quarant’anni. Ciò potrebbe far sì che un elettorato anagraficamente più maturo potrebbe ricordare di avere vissuto momenti forse migliori con i governi dei partiti tradizionali, come la Unidad social cristiana e quello di Liberación nacional, estromessi dal potere nelle ultime tornate elettorali.
Tenuto conto di quanto fatto da Acción ciudadana e dai suoi alleati col Plan Fiscal, colpevoli agli occhi di molti di aver bastonato salari, pensioni e rendite di cittadini e di lavoratori, la maggioranza dei costaricensi potrebbe preferire un ritorno all’usato sicuro, voltando le spalle ai rischi e alle incertezze del nuovo. Ciò rappresenterebbe l’ennesima conferma del trend registrato nella recente tornata delle elezioni latinoamericane, quelle libere e trasparenti s’intende, che, causa Covid e conseguente crisi economica, hanno visto uscire massacrati i partiti di governo.