Devo confessare di nutrire una qualche forma di simpatia per Renato Brunetta dovuta alle sue dichiarazioni spesso sopra le righe, al suo attivismo plateale distante dal comportamento felpato di molti politicanti. Insomma, perché si comporta come un vero e proprio personaggio mediatico. Simpatia rafforzata dopo che Maurizio Crozza ne ha fatto una satira di stampo un po’ razzista, basata sulla sua altezza non proprio da giocatore di pallacanestro. Peraltro Brunetta è un vero sportivo. Il nostro è, infatti, cintura nera di judo “primo dan”, sia pure ottenuta con un diploma ad honorem conferitogli nel dicembre scorso dal presidente del Coni, Giovanni Malagò. Si tratta di una sua antica passione che risale a prima del suo impegno in politica. Un’esperienza che – recita una nota della Federazione italiana judo lotta karate arti marziali – “lo ha formato caratterialmente”. Infatti, come caratterino non c’è male.
Fedele al suo ruolo, quando va in tivù le spara grosse. Forse si ricorderà la sua dichiarazione del giugno 2008: “Volevo vincere il premio Nobel per l’economia. Ero anche bravo, ero… non dico lì lì per farlo, però ero nella giusta… ha prevalso il mio amore per la politica. Il premio Nobel non lo vincerò più anche se ho buone possibilità di diventare presidente della Repubblica”. Certo, la modestia non è il suo forte, o forse si tratta di autoironia?
Peccato che un suo collega, citato dall’“Espresso”nel 2009, abbia scoperto che una delle sue non numerose opere scientifiche, il trattato di Microeconomia del lavoro, scritto con Alessandra Venturini, includa interi brani letteralmente tradotti o parafrasati e numerosi grafici copiati da un testo statunitense del 1980 (Labour Economics dei professori Fleisher e Kniesner). Come sottolineato in quell’articolo, la sua non è propriamente un’opera scientifica da Nobel ma un manuale per gli studenti. Il guaio, per la sua integrità intellettuale, è che il ben più noto testo americano non venga neanche citato nella pur amplissima bibliografia allegata.
Non poteva mancare al riguardo l’ironia del Matteo di Rignano sull’Arno in uno dei loro non epici scontri nell’aula di Montecitorio, il 12 ottobre 2016: “Evidentemente l’onorevole Brunetta è giù di morale per l’ennesima mancata assegnazione del Nobel, che anche quest’anno, incomprensibilmente, non è andato da quelle parti”. Un’antipatia tra i due che va a merito di Brunetta, anche se induce il nostro a dichiarazioni ancora una volta eccessive: “Io sto usando solo il 5% del mio potenziale combattivo, politico e intellettuale per oppormi a Renzi. Ma la mia pazienza non è infinita”.
Nella sua vita Renatino ha fatto un po’ di tutto. Laureatosi in quel di Padova, oltre ad avere intrapreso la carriera accademica, è stato giornalista, collaborando con “Il Sole 24 ore”, “Il Giornale”, “Il Riformista”; è stato consulente economico del Partito socialista negli anni Ottanta e dei governi Craxi, Amato e Ciampi; vicepresidente del Comitato manodopera e affari sociali dell’Ocse dal 1985 al 1989; eletto europarlamentare nel 1999 e poi a Montecitorio per tre legislature, dal 2008 diventando capogruppo di Forza Italia; due volte sconfitto, nel 2000 e nel 2010, come candidato a sindaco di Venezia, mentre fu eletto consigliere comunale di Bolzano nel 2005, incarico da cui si dimise un mese dopo; due volte ministro della Pubblica amministrazione, una prima volta dal 2008 al 2011 con il governo Berlusconi e poi con Draghi dal febbraio 2021 a oggi.
Non certo un fannullone, dunque, il nostro ministro, ma come abbiamo visto, un po’copione sì. “Fannulloni”, a suo dire, sono invece i dipendenti pubblici italiani. Che non lo amano di certo. Quando è ritornato, nel febbraio 2021, a Palazzo Vidoni, sede del ministero per la Pubblica amministrazione, Serena Sorrentino, segretaria generale della Funzione pubblica-Cgil gli diede il benvenuto con questa dichiarazione: “È in assoluto il ministro che nella storia della Repubblica di più ha generato conflitto sociale… è intervenuto delegittimando la funzione sociale del lavoro pubblico… ha aumentato le misure orientate alla logica punitiva di dipendenti e dirigenti… ha favorito esternalizzazioni e precariato per privatizzare spazi di mercato di servizi essenziali… non ci rassegneremo a tornare al 2009”. Contro gli impiegati pubblici che “non lavorano” Brunetta in quel periodo dichiarò, infatti, che il problema si risolveva semplicemente licenziandoli.
Che la sua (non) memorabile campagna a favore del licenziamento dei “fannulloni” non diede i risultati sperati, malgrado i dati diffusi dal suo ministero, lo svelò di nuovo l’“Espresso” in un articolo del settembre 2009, parlando di “Brunetta bluff”. L’analisi ministeriale, infatti, si basava sugli enti più virtuosi, mentre mancavano all’appello grossi pezzi dell’apparato statale (la pubblica istruzione e le forze di polizia). Lo stesso ministero di Brunetta, successivamente, registrò un decremento della riduzione delle assenze per malattia da meno 44,6% del settembre 2008 al meno 17% del luglio 2009. Comunque, secondo i dati della Ragioneria generale dello Stato, era già da fine 2004 che si verificava una diminuzione di chi si dava malato tra i pubblici dipendenti.
Il 23 settembre scorso, Mario Draghi, su proposta di Brunetta, ha firmato un decreto per riportare negli uffici dal 15 ottobre scorso tutti i dipendenti pubblici. Da casa, potrà lavorare non più del 15% degli impiegati pubblici. In pieno lockdown ben 1,8 milioni (il 56,6%) di impiegati dei ministeri, di enti pubblici, di Comuni e Regioni, aveva lavorato dal proprio domicilio, con altri cinque milioni di lavoratori del settore privato. Va ricordato che, secondo i dati riportati dal “Messaggero” del 31 agosto 2020, prima della crisi pandemica, il numero di lavoratori agili ammontava, in Italia, a soli cinquecentomila. Con la quota del 15% si ritorna così ai numeri di prima del Covid-19. Secondo il ministro, il lavoro agile determina inefficienze, non garantisce i servizi pubblici essenziali, sarebbe una perdita di tempo, “un lavoro a domicilio all’italiana”. Tutto ciò affermato senza citare dati utili a consentire un’analisi di costi e benefici. Certo lo smart working diminuisce gli scambi informativi, può marginalizzare le persone, non aiuta a integrare il personale assunto da poco, accentua il sovraccarico femminile di ruoli (lavoratrice, madre, insegnante di sostegno, ecc.), rende più difficoltosa l’organizzazione sindacale; ma presenta indubbi vantaggi, come risulta da diverse inchieste.
Il lavoro agile è considerato un’opportunità per modernizzare l’organizzazione del lavoro sia pubblico sia privato dal 73% degli italiani intervistati dall’Istituto Piepoli. Secondo il Politecnico di Milano citato da Domenico De Masi, nelle organizzazioni che hanno applicato il telelavoro, la produttività è aumentata del 10%. Lo stesso autore sottolinea come, mettendo in lavoro agile il 97% del suo personale, l’Inps sia riuscita a smaltire 6,4 milioni di pratiche relative alla Cassa integrazione guadagni; laddove, prima, ne evadeva solo ottocentomila. Il World Economic Forum ha calcolato che, negli Stati Uniti, il ricorso a questa forma di lavoro ha portato a un incremento della produttività del 4,6%. Mentre il ritorno massiccio al lavoro in presenza, nel settore pubblico, potrebbe, non troppo paradossalmente, disincentivare la produttività dei travet demotivati che ritornano controvoglia a tempo pieno in ufficio. Occorreva, viceversa, cogliere l’occasione per utilizzare questa sperimentazione di massa del telelavoro: per riorganizzare e modernizzare la pubblica amministrazione. La tragedia pandemica può consentire di accelerare l’innovazione digitale, scardinando le resistenze psicologiche e/o organizzative.
Inoltre, altre motivazioni emergono dalle dichiarazioni di Brunetta a favore della fine dello smart working: il ritorno in ufficio “gioverebbe ancor più ai settori del terziario urbano, come quello dell’horeca (hotel, ristoranti, bar), dell’abbigliamento e dei trasporti”. Invece, proprio la modalità del lavoro agile praticato da milioni di persone aveva consentito di diminuire il traffico, di ottenere un minor affollamento dei mezzi pubblici, un’importante riduzione del CO2 in atmosfera, e aveva comportato una riduzione nei dodici mesi del 2020 degli incidenti stradali (meno 31%), nonché dei morti e dei feriti relativi. Infine, questa modalità di lavoro aveva rivitalizzato le periferie urbane. Potrebbe, in prospettiva, ripopolare i territori fragili: circa centomila residenti originari del Mezzogiorno hanno, per esempio, deciso di tornare al Sud per lavorare da remoto.
Richiamando tutti in ufficio il ministro non aveva previsto la nuova ondata di contaminazioni, e rischia così di costringere milioni di persone a esporsi al rischio dell’infezione,per di più di una variante altamente contagiosa come Omicron, mentre proprio il telelavoro potrebbe rappresentare uno strumento utile per prevenire e contrastare la diffusione del Covid-19. Infatti, il contrasto al diffondersi della pandemia non può basarsi sui soli vaccini, ma deve articolarsi in politiche che prevedano il rilancio della sanità e del trasporto pubblici, il tracciamento, e turni di presenza al lavoro consentiti su larga scala proprio dal lavoro agile.
È d’altronde ciò che pensano di attuare diversi altri Paesi europei, a partire dalla Francia, che dal 3 gennaio 2022 ha imposto anche alle aziende private di mantenere in smart working i propri dipendenti almeno tre giorni a settimana per le mansioni che lo consentono, pena una multa di mille euro per ogni dipendente non in telelavoro. Il Belgio, a sua volta, ha imposto quattro giorni a settimana di lavoro da casa fino al 13 dicembre, che sono scesi a tre nella fase seguente.
Ci si avvia in Europa a una forma ibrida tra lavoro in presenza e in remoto. Il lavoro a distanza era del tutto minoritario prima della pandemia; adesso, sia pure in misura diversa nei vari paesi della Unione europea, ha conosciuto una vera e propria impennata. Come sottolinea “Collettiva”, il giornale online della Cgil, la transizione digitale renderà “telelavorabili” un numero sempre più ampio di mansioni e di professioni.
Dunque, ministro Brunetta, è possibile che con le sue disposizioni che costringono i dipendenti pubblici a lavorare solo in presenza, come rileva ironicamente De Masi, essi potranno “tele-apprendere, tele-commerciare, tele-curarsi, tele-amare e tele-divertirsi”, ma non potranno “tele-lavorare”? È possibile che lei propugni la flessibilità del lavoro solo quando si tratta di precarizzarlo o di licenziare, ma non voglia sostenere nuove forme più flessibili di lavoro a beneficio dei lavoratori? Preferisce, obbligando i dipendenti pubblici a tornare (quasi) tutti in ufficio, favorire Omicron e ricoprire così il poco onorevole ruolo di novello “untore”?