Dopo la conferenza stampa di fine anno, sappiamo con certezza che Draghi è disponibile a farsi eleggere alla presidenza della Repubblica. Peraltro non ne dubitavamo: come presidente ha una lunga carriera alle spalle, gli manca soltanto l’ultimo gradino per poter fare il “nonno”, come lui stesso si è definito, coronando probabilmente l’ambizione di una vita. Ma la questione non è il carrierismo di Draghi (del resto sostenuto anche dal “Financial Times”, secondo il cui autorevole parere meglio sette anni in un bel posto sicuro, anziché ancora un anno, o poco più, al governo). È piuttosto l’inghippo istituzionale che ciò comporta. Abbiamo infatti un presidente del Consiglio che, nelle prossime settimane, sarà tutto preso da una trattativa più o meno sottobanco per trovare un accordo tra i partiti sul governo che dovrà succedergli, mentre lui rassegnerà le dimissioni nelle mani del capo dello Stato uscente – per ripresentarsi subito dopo come il capo dello Stato entrante, olé!
Con questo inedito meccanismo da porte girevoli presidenziali, non ci guadagna il cittadino. Intendiamoci, non siamo affatto contrari a Draghi in quanto persona: pensiamo anzi che – da quando lui ha assunto le ben note posizioni a livello europeo riguardo alla revisione del patto di stabilità – possa essere un’ottima cosa che vada alla presidenza della Repubblica italiana, seguitando a premere, anche grazie alle sue buone relazioni in Europa, affinché si arrivi a un definitivo superamento della insensata austerità europea. Non siamo sovranisti, siamo per la costruzione di un progressivo federalismo su scala continentale – e per questo Draghi potrebbe essere perfino un punto d’appoggio. Neppure condividiamo l’idea che lui sia stato messo alla presidenza del Consiglio da una specie di complotto tecnocratico-finanziario riguardo alla gestione del Pnrr. La spinta all’abbattimento del governo Conte 2 proveniva dalla Confindustria (di questa si è fatto interprete in parlamento un boccheggiante Renzi, che lotta per evitare la propria morte politica), ed è quindi il “blocco borghese del Nord” – peculiarità tutta italiana – che lo ha voluto a capo di un governo di larghe intese per far pesare il proprio interesse di classe.
Dicevamo però che il cittadino non ci guadagna, e lo vediamo con la gestione a dir poco incerta di una ripresa pandemica invece amaramente certissima. Non si prendono, infatti, quelle misure restrittive divenute necessarie da almeno un mese. Come spiega l’articolo di Michele Mezza qui accanto, non c’è possibilità di contrasto efficace al virus unicamente con i vaccini, che pure sono l’arma fondamentale a nostra disposizione. Ci vogliono i vaccini e una limitazione dei contatti interpersonali, al fine di impedire il moltiplicarsi delle varianti. Su questo Draghi esita, e pour cause. Lui ha adesso il problema di tenere unita la propria maggioranza sul suo nome: non può certo scontentare la Lega e i suoi pruriti aperturisti e “no pass” (per non dire “no vax”, se pensiamo all’altra scelta non più rinviabile, quella circa l’obbligo vaccinale) nel momento più decisivo per realizzare il sogno di “nonno” delle istituzioni.
Siamo così dinanzi alla solita anomalia italiana, che si ripresenta stavolta nella forma di un Draghi a due teste, presidente del Consiglio in carica e contemporaneamente presidente della Repubblica in pectore. L’azione trasformistica parlamentare che condusse alla caduta del Conte 2, e a un governo spostato a destra verso Forza Italia e la Lega, ha oggi come conseguenza che il povero presidente del Consiglio debba lui stesso brigare per ottenere una presidenza della Repubblica a cui sarebbe stato molto più agevole aspirare dall’esterno della politica, restandosene in panchina in attesa del passaggio cruciale di questo gennaio-febbraio 2022 che vedrà l’elezione del nuovo capo dello Stato.