È troppo tardi per fermare la “pandemia di disuguaglianza” denunciata a fine 2021 dal quotidiano “Domani”? Al netto delle attuali incertezze sui futuri equilibri politici e istituzionali (governo, Quirinale, alleanze fra partiti, corpi intermedi e gruppi d’interesse) questo è – o dovrebbe essere – l’interrogativo centrale per qualsiasi discussione sul futuro dell’Italia. E comunque il minimo sindacale per chi si sente collocato in un ambito politico-culturale di sinistra, o anche solo vagamente progressista. Non sarebbe saggio accontentarsi della speranza che Mario Draghi, magari supportato dal commissario europeo Paolo Gentiloni, riesca a ottenere una revisione delle regole europee su debito pubblico e bilancio dello Stato in direzione di un assetto meno ottusamente austeritario e antisociale. Temi importanti, certo: ma che non cancellano la preoccupazione che l’attuale stagione politica stia alimentando – a causa della pandemia ma anche delle scelte dell’attuale governo – l’ennesimo capitolo di una lunga storia di redistribuzione verso l’alto della ricchezza nazionale. Tra i punti da tenere sotto osservazione, a questo proposito, c’è la decisione di portare avanti il percorso di completamento della cosiddetta autonomia regionale differenziata (“terzogiornale” ne aveva già parlato mesi fa, qui), che dovrà trovare attuazione attraverso l’approvazione di un disegno di legge collegato alla manovra di bilancio.
Cosa dicono le mappe della disuguaglianza
Il focus scelto dal quotidiano di Carlo De Benedetti per mettere l’accento sul tema delle disuguaglianze è quello classico: “Il 10% più ricco della popolazione – osserva il direttore Stefano Feltri nel suo editoriale – possiede il 48% della ricchezza delle famiglie e può trasmetterla quasi senza imposte di successione, in modo da perpetuare e aggravare la concentrazione di benessere”. Ma la ricca dotazione grafica dell’inchiesta consente di far caso anche alla disuguaglianza territoriale. Utilizzando il coefficiente di Gini (strumento statistico che misura appunto la distribuzione più o meno equa delle ricchezze sul territorio), la mappa dell’Italia mostra come siano soprattutto alcune aree del Centro-Sud e delle isole maggiori, insieme con le zone montane del Nord, a soffrire per le differenze più marcate nella distribuzione del benessere sociale.
La rappresentazione più interessante è quella riferita all’indice di mobilità sociale: più si scende al Sud, meno speranze di progresso individuale si possono coltivare. Secondo i dati analizzati da “Domani”, grosso modo dalla Linea Gotica in giù sono prossime allo zero le “probabilità di muoversi dal quintile più povero al quintile più ricco della distribuzione del reddito”. Una sorta di domicilio coatto sociale, un orizzonte senza speranza di crescita per una larga parte di popolazione, che spiega il dato spaventoso di due milioni di emigrati dal Sud dell’Italia fra il 2002 e il 2017, riportato in un rapporto pubblicato da Svimez nel 2019. Molto prima della pandemia, della conseguente crisi economica e della nuova ondata di chiusure, delocalizzazioni, licenziamenti di massa.
La spinta leghista non si arresta
Siamo troppo spesso abbagliati dagli aspetti più spettacolari della comunicazione politica e dalla superficialità dell’informazione che ce la racconta: per questo sono in pochi a ricordare che prima della “crisi del Papeete”, innescata dal leader della Lega Matteo Salvini, non erano mancati scontri molto aspri nel cosiddetto governo gialloverde. Soprattutto su tre temi: gestione dei flussi dei migranti, giustizia e appunto autonomia differenziata. Proprio di recente i due potenti presidenti leghisti della Lombardia e del Veneto, Attilio Fontana e Luca Zaia, sono tornati a fare la voce grossa con un intervento a doppia firma sul “Corriere della sera”. Chi ama il black humour può forse apprezzare la teoria secondo la quale “dove lo Stato assume i poteri commissariali sulla sanità regionale non si hanno grandi benefici”, esplicitata mentre sono ancora sotto gli occhi di tutti gli italiani gli effetti tragici che la pandemia ha avuto sulla sanità di certe regioni devastata dall’asservimento agli interessi del privato. Ma, bizzarrie dialettiche a parte, i due leader regionali hanno rilanciato il loro ultimatum dalle pagine del quotidiano milanese. Occorre – hanno spiegato – “operare per portare a compimento quanto previsto dalla Costituzione investendo sulla autonomia differenziata per rispondere alle diversità che caratterizzano il Paese e per investire di responsabilità piena le comunità politiche sociali e culturali”. La parola Padania non va più di moda, ma il posizionamento politico-culturale resta grosso modo lo stesso.
La trappola della spesa storica
Sarebbe illusorio, tuttavia, immaginare che lo sviluppo dell’autonomia regionale differenziata rappresenti una minaccia legata solo a possibili future sperequazioni fra Nord e Sud. Nella sua prefazione al volume Zero al Sud, scritto dal giornalista del “Mattino” di Napoli, Marco Esposito, l’economista Gianfranco Viesti lo ha chiarito, parlando di quanto è già accaduto imboccando la strada del cosiddetto federalismo fiscale: “Lo Stato ha misurato, Comune per Comune, fabbisogni, costi e servizi con l’obiettivo di attribuire a ciascun territorio le risorse corrette. I conteggi hanno dato un risultato inatteso: si pensava di far emergere la cattiva spesa del Sud e ci si è trovati davanti al dettaglio del profondo divario tra le Due Italie. L’uguaglianza ha un costo miliardario e così si è imboccata la scorciatoia di piegare le regole in modo da attribuire al Sud meno diritti e meno soldi. Lo Stato invece di costruire gli asili nido o i binari dove mancano ha stabilito che, nei territori di tipo ‘B’, il fabbisogno è zero. Ha dimezzato la perequazione dove la Costituzione garantiva che fosse ‘integrale’”. E in effetti, nel rapporto “Il calcolo disuguale” (qui il documento integrale) confezionato da Openpolis, nel quadro di una collaborazione con la trasmissione di Rai 3 “Report”, il meccanismo viene analizzato nel dettaglio, parlando di “cristallizzazione del divario interno”. Qualche cifra significativa: “43,8% le persone a rischio povertà o esclusione sociale nel sud Italia, nel 2018. Lo stesso indicatore registra livelli ampiamente inferiori nelle altre aree del Paese: 16,8% nel nord-ovest, 14,6% nel nord-est e 23,1% nel centro Italia”.
Come funziona questo divario? Un elemento cruciale sta nella differente quantità e qualità di servizi erogati dall’ente locale più prossimo ai cittadini. Per riequilibrare queste differenze, lo Stato avrebbe dovuto individuare i Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) e usare un fondo perequativo per indirizzare le risorse a favore dei territori che faticano a erogare quei livelli di servizio. Invece – spiega Openpolis – “i calcoli per definire il fabbisogno standard sono basati sulla spesa degli enti locali. Perciò i comuni che hanno spese nulle o limitate per i servizi si vedono riconosciuti fabbisogni bassi. Questo genera un paradosso. Territori che non spendono, per scarsità di risorse o perché del tutto privi di alcuni servizi, avrebbero più bisogno di altri di potenziare questo settore. Invece registrano fabbisogni standard inferiori, o addirittura nulli, rispetto a territori dove l’offerta di servizi è maggiore”.
Quanto valgono i bambini del Sud
In un recente testo a quattro mani, redatto dal saggista Andrea Del Monaco e dal senatore del gruppo misto Gregorio De Falco, il meccanismo viene spiegato in termini molto crudi, con i dati dei report Istat sugli asili nido degli anni passati, “che riportano i dati disaggregati per Regioni e Comuni”. Nel report del 2016 “si rileva la differente spesa per bambino (con meno di tre anni) residente negli asili nido comunali o finanziati dai comuni capoluoghi di Provincia: nel 2013, nel Comune di Trento si spendono 3.560 euro per ciascun bambino residente, a Bologna 3.408 e a Roma 2.948. La spesa si abbassa molto nei Comuni del Mezzogiorno arrivando a Reggio Calabria a 31 euro per bambino, a Vibo Valentia 57 euro, a Catanzaro 67 euro, a Sanluri 68 euro”. In sostanza, “un bambino bolognese vale più di cento bambini reggini”. E ora? Del Monaco e De Falco spiegano che il governo Draghi ha inserito nella legge di Bilancio 2022 (poi approvata come di consueto in un articolo unico frutto di un maxiemendamento sul quale è stata posta la fiducia) “ben quattro articoli (43, 44, 45, 179) che fanno riferimento ai Livelli essenziali di prestazione (Lep). Tali articoli fanno credere che lo Stato abbia identificato gli obiettivi dei vari servizi e abbia già determinato i costi medi dei Lep, creando così l’illusione che si possano ripartire le risorse secondo il principio di solidarietà previsto dall’articolo 2 della Costituzione”.
A cavallo fra gennaio e febbraio, saremo tutti distratti dall’appuntamento – appassionante o preoccupante a seconda dei punti di vista – dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Nel sacco dei buoni propositi per il 2022 mettiamo, però, anche quello di non perdere di vista le questioni più concrete, fra le quali va annoverata senz’altro l’evoluzione di questa non secondaria minaccia alla coesione sociale e alle future speranze di una vera lotta alle disuguaglianze nel Paese.