Il Mali come l’Afghanistan? La Francia come gli Stati Uniti e i loro alleati? Tra i due scenari non mancano le similitudini. Come Barack Obama, Donald Trump, e infine Joe Biden, annunciarono e misero fine alla presenza delle truppe statunitensi a Kabul, così anche Macron ha fatto sapere che i francesi cominceranno il ritiro dall’ex colonia, impossibilitati come sono a gestire il ginepraio del Paese africano e a dare un seguito a quella che fu chiamata “operazione Barkhane”. Dopo aver annunciato la decisione lo scorso giugno, il 14 dicembre è andato in scena il primo atto del ritiro, con la partenza di circa duemila soldati da Timbuktu sui cinquemila presenti, mantenendo comunque un piccolo contingente nella regione di Gao, ancora oggi particolarmente problematica.
Diverse le ragioni che stanno dietro questo tirarsi indietro. Anzitutto l’impossibilità di fare le veci dello Stato, in tutto e per tutto. Per il presidente francese, “non possiamo sostituirci a un popolo sovrano e al ritorno dello Stato con tutte le sue funzioni”. Un presunto rispetto della sovranità del Mali – dietro il quale, in realtà, si nasconde la difficoltà di Parigi nel risolvere la gravità della situazione.
Macron punta inoltre l’indice contro le autorità locali: “Non possiamo mettere in sicurezza delle zone che ricadono nell’anomia perché gli Stati decidono di non prendersi le loro responsabilità. Né tanto meno portare avanti delle operazioni congiunte con dei governi che decidono di dialogare con gruppi che sparano sui nostri ragazzi”, facendo riferimento, in questo caso, ai tentativi di dialogo tra il presidente golpista Assimi Goïta e gli stessi estremisti islamici, e all’inerzia degli Stati della regione nella lotta al terrorismo. Ragioni importanti che stanno dietro, dopo nove anni di intervento militare, alla conclusione di un’epoca avviata dalla richiesta di aiuto del gennaio 2013, da parte dell’allora presidente maliano Dioncounda Traoré‚ in guerra contro gli islamisti che avevano occupato la regione settentrionale dell’Azawad, di cui i tuareg rivendicavano l’indipendenza, prima di allearsi con i gruppi fondamentalisti. Allora all’Eliseo – da sempre interessato a mantenere un’egemonia politica ed economica nella regione del Sahel – sedeva il socialista François Hollande.
A presidiare oggi la regione restano, oltre ovviamente all’esercito maliano, anche 2200 caschi blu dell’Onu. Una delle ragioni principali che sta dietro il ritiro è il costo in termini di vite umane: in questi anni, cinquantuno soldati francesi hanno perso la vita nel corso dei combattimenti. Restare lì, per Macron, non sarebbe dunque una decisione saggia nel bel mezzo della campagna elettorale. A Bamako, del resto, l’instabilità è pane quotidiano, con i militari che la fanno da padroni. Negli ultimi nove mesi il colonnello Assimi Goïta, vittima a luglio scorso di un tentato omicidio, dopo avere guidato due colpi di Stato, ha prestato giuramento come presidente ad interim. I due golpe sono frutto di una interminabile contesa tra potere civile e potere militare. La vittoria delle forze armate ha messo a dura prova le relazioni con la Francia e con i Paesi occidentali in generale.
A questo si è aggiunta la notizia dell’arrivo dei mercenari russi del temuto gruppo Wagner, in realtà una vera e propria unità militare legata al ministero della Difesa russo e già presente in aree di crisi, come nel Donbass, in Siria e in Libia. Un tentativo neanche troppo velato di Mosca di diventare protagonista in un’area di grande importanza geopolitica. Un’ambizione supportata, all’interno del Paese, dallo stesso governo militare, nonché da una popolazione che vede ora nella Russia un sostegno che la Francia non sarebbe più in grado di garantire.
Il nuovo legame tra russi e regime militare ha ulteriormente complicato i rapporti tra Bamako e Parigi. A ciò va aggiunto lo scontento della popolazione che sperava in una sconfitta del fondamentalismo, la quale, invece (com’è successo appunto a Kabul), appare ben lontana dall’essere realizzata. Il Mali e il Niger sono ancora oggi tra i primi dieci Stati più colpiti dal jihadismo, un quadro che rende complicato rispettare l’impegno a organizzare libere elezioni democratiche previste entro la fine di febbraio. Qualora non ci fossero ulteriori “progressi concreti” verso la preparazione del voto, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale inasprirebbe le sanzioni già in atto – divieto di viaggio in Mali e congelamento dei beni di membri del governo – contro il regime militare: sanzioni che si aggiungerebbero alla temporanea sospensione degli aiuti economici e delle iniziative di cooperazione da parte dell’Unione europea.
Secondo Hamidou Cissé, appartenente al gruppo Patriots of Mali, “dopo che i francesi sono arrivati, abbiamo pensato che avremmo avuto la pace. Ma se si ritirano oggi, tra sei mesi o un anno, soffriremo, ma è meglio soffrire che restare nelle loro mani per sempre”. Come in tante altre regioni africane, dietro quelli che sembrano conflitti politici si nascondono rivalità etniche che rendono complicato ogni intervento finalizzato a una pacificazione. Quali prospettive si aprono dunque per un Paese che, come tanti altri, una volta era meta di viaggi turistici per le bellezze sia storiche sia naturali? In un certo senso, può risultare difficile pensare a un totale disimpegno di Parigi da quell’area. Soprattutto dopo aver subito un pesante smacco in Repubblica centroafricana, dove i russi – sempre attraverso il gruppo Wagner – stanno sostenendo il presidente Faustin-Archange Touadéra.
Macron è quindi alla ricerca di un nuovo approccio piuttosto che di un totale abbandono. L’obiettivo è quello di coinvolgere gli altri Stati della regione, mantenendo comunque un impegno. È prevista una nuova missione che si chiamerà Takuba, che prevede la presenza di circa seicento soldati delle forze speciali di Paesi europei, la metà dei quali saranno francesi. Saranno inoltre presenti centoquaranta svedesi e alcune decine di cechi e di estoni. Probabilmente ci sarà anche un contingente danese e una presenza militare italiana, già approvata nel giugno dello scorso anno.
Che un pezzo d’Africa, con in più un gruppo ridotto formato da truppe europee, possa contrastare da un lato l’estremismo islamico, e dall’altro le smanie neocoloniali di Mosca è lecito dubitarne. Uno scenario che conferma, una volta di più, la debolezza dell’Occidente nel far fronte alle troppe guerre che dilaniano il continente africano.