Lo spavento delle cancellerie di mezzo mondo è rientrato solo poche ore fa. Il governo di Tripoli ha congelato il decreto di nomina del nuovo comandante militare della capitale. Le milizie che avevano circondato gli uffici del primo ministro, Abdul Hamid Dbeibeh, e del presidente del Consiglio presidenziale, Mohamed al-Menfi, in segno di protesta per una scelta che penalizzava il comandante defenestrato – un eroe della resistenza di Tripoli contro gli attacchi di Haftar (e non solo) nel 2018, 2019 e 2020 – si sono ritirate.
È tornata così un’apparente calma nel Paese, dopo il timore che potesse essere in atto un tentativo di golpe. E siamo ora in attesa degli sviluppi sul rinvio delle elezioni presidenziali fissate per il 24 dicembre. Il rinvio del voto, infatti, dovrebbe essere ratificato dal parlamento lunedì prossimo. Gli sherpa dei vari schieramenti (territoriali e politici) sono al lavoro per cercare un’intesa in vista della formazione di un governo di grande coalizione, che guidi il Paese in questa fase di transizione. Più questa trattativa va avanti, più c’è la possibilità che le elezioni vengano fissate in tempi (libici) accettabili. Ma il rischio è che, una volta rinviate le elezioni, se non si dovesse trovare l’intesa, la Libia possa precipitare verso una guerra civile drammatica.
In questo quadro, stupisce l’incapacità dell’Europa di interpretare gli sviluppi della situazione. Per esempio, fino a ieri il nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e la grande stampa davano per certe le elezioni presidenziali il 24 dicembre. La sensazione è che sapevano perfettamente che sarebbe stato difficile andare al voto, senza le garanzie necessarie che avessero posto tutti i candidati su un piede di parità.
Anche i commenti intorno alla conferenza sulla Libia, che si è svolta a Parigi a metà novembre, avevano lasciato intendere che una Libia “pacificata” sarebbe andata al voto alla vigilia di Natale, dopo l’intesa che, per dirla con il presidente del Consiglio presidenziale al-Menfi, “avrebbe portato il Paese alle elezioni simultanee del presidente della Libia e del parlamento”. E invece neppure la conferenza di Parigi è servita per trovare un’intesa convincente tra le diverse parti in causa. In sostanza, il 24 dicembre si sarebbe votato solo per il presidente. La legge – approvata con un atto di forza dal parlamento di Tobruk – prevede infatti l’elezione con la maggioranza assoluta, altrimenti si va al ballottaggio fissato per il 17 febbraio prossimo, insieme con le elezioni parlamentari.
I candidati alla presidenza della Libia sono 98, mentre, per i duecento seggi del parlamento, si sono presentati 5.385 candidati. L’Alta commissione elettorale ancora non ha pubblicato le liste preliminari dei candidati. Non si conoscono i nomi dei candidati ammessi alle elezioni. Il nervo scoperto, dunque, è l’intesa tra le parti sulle modalità di elezioni. Cioè il timore – soprattutto a Tripoli – è che le elezioni presidenziali potrebbero legittimare un golpe strisciante del generale Khalifa Haftar, candidato della Cirenaica, che, se dovesse fare il pieno di voti (come si teme), al primo turno potrebbe decidere di sospendere le votazioni per il parlamento.
In queste settimane le cancellerie di Parigi e Roma (e della Unione europea) hanno voluto accreditare la tesi di un processo democratico in atto in Libia. Al di là delle apparenze, in realtà, né l’Europa né le Nazioni Unite hanno un ruolo attivo nella garanzia del rispetto delle regole nella transizione libica. Anche i Paesi arabi, la Turchia e la Russia (attraverso i mercenari della organizzazione Wagner) hanno un ruolo determinante per le sorti del futuro del Paese. Sono “presenze” richieste dagli stessi libici e, nel tempo, sono diventati i “garanti” dei diversi schieramenti.
Del resto, il rinvio delle elezioni del 24 dicembre è una risposta alle evidenti violazioni delle regole del gioco. Per esempio, il presidente del Consiglio in carica dovrebbe essere cancellato dalla competizione, perché la legge stabilisce che tre mesi prima del voto tutti i candidati che ricoprono cariche istituzionali debbano dimettersi dalle stesse.