In Sudan ritorna la speranza. La protesta di migliaia di sudanesi, costata morti e feriti, la netta presa di posizione degli Stati Uniti, dell’Unione europea e dell’Onu, hanno fatto scendere a più miti consigli i militari del Paese africano, che il 25 ottobre avevano deposto il primo ministro Abdalla Hamdok. Mentre i componenti civili del precedente governo, già agli arresti domiciliari, venivano rilasciati, il premier e il generale Abdel Fattah al-Burhan, principale autore del colpo di Stato, hanno raggiunto un accordo, il 21 novembre scorso, per il reinsediamento del primo ministro alla guida del governo. L’intesa è stata ratificata di fronte al presidente del Consiglio sovrano, che è lo stesso generale golpista Abdel Fattah. La ripresa della collaborazione tra i civili e i militari costituisce di fatto un ridimensionamento delle ambizioni delle forze armate, sebbene la crisi sia tutt’altro che risolta.
“L’accordo – dice Bruna Sironi, corrispondente dal Kenya del mensile dei comboniani “Nigrizia” – prevede libertà nella formazione di un governo di tecnici, e la nomina in tempi rapidi delle altre istituzioni nel periodo transitorio, come l’assemblea legislativa finora mai insediata. Ma il potere sarà saldamente nelle mani del Consiglio sovrano (cioè dei militari, ndr), nei giorni scorsi purgato dalla maggior parte dei civili, cui toccherà approvare o rigettare gli atti dell’esecutivo”.
Questo passaggio arriva dopo oltre un mese di grave illegalità istituzionale causata dal colpo di Stato, con una conseguente instabilità interna e internazionale in relazione alla collocazione geopolitica del Sudan. Il governo di Abdalla Hamdok, giunto al potere nel 2019, aveva lasciato sperare in una pacificazione del Paese africano e in una normalizzazione dei rapporti con l’Occidente e con Israele, in quest’ultimo caso con la ratifica degli “accordi di Abramo” del gennaio scorso, frutto dell’iniziativa diplomatica dell’ex presidente americano Donald Trump, che aveva coinvolto anche Bahrein, Emirati arabi uniti e Marocco. Un’operazione che aveva comportato la cancellazione del Sudan da quell’elenco a stelle e strisce degli “Stati canaglia”, in modo da favorire la transizione democratica avviata in seguito allo storico accordo di Juba, nel Sud Sudan. Un’intesa, questa, siglata dopo diciassette anni di guerra e un bilancio di trecentomila morti, alla presenza del premier Abdalla Hamdok, del presidente sud-sudanese, Salva Kiir, e dei gruppi ribelli armati del Fronte rivoluzionario del Sudan, che riunisce le milizie delle regioni del Darfur, del Kordofan e del Nilo azzurro.
La normalizzazione dei rapporti tra Khartum e Washington era avvenuta all’indomani del colpo di Stato che – a seguito di un’intensa sollevazione popolare – nel 2019 aveva deposto il vecchio leader islamista al-Bashir, che in passato aveva dato ospitalità anche a Osama Bin Laden. Da qui, appunto, l’intesa con Tel Aviv, messa a rischio dai recenti avvenimenti. In questo complicato quadro geopolitico, l’allontanamento del Sudan dagli Stati Uniti – ora in parte rientrato – ha spinto la Russia a insistere perché Khartum dia avvio alla costruzione di una base militare oggetto di un accordo firmato nella capitale sudanese nel luglio 2019, e a Mosca nel dicembre 2020. Insomma, anche il Sudan viene a collocarsi, suo malgrado, all’interno del confronto attualmente in atto tra le superpotenze.
Tornando al golpe militare, non si è trattato di un evento imprevedibile, anche perché, secondo fonti governative, il 21 settembre scorso sarebbe già stato sventato un primo tentativo. Secondo Giovanni Carbone, africanista e docente di Scienze politiche all’università di Milano, “un golpe è sempre improvviso. Ma alcuni colpi di Stato sono nell’aria ben prima di essere portati a compimento, e quello del Sudan è uno di questi. Da quando il maresciallo Omar al-Bashir venne rovesciato, nel 2019, Khartum ha camminato su un crinale instabile, a cavallo tra il tentativo di consolidare la transizione e il rischio che venisse innestata la marcia indietro. Di fronte ai recenti interventi militari in Mali e in Ciad – prosegue Carbone –, sarebbe urgente arginare il ritorno di una pratica che anche nell’Africa subsahariana sembrava in disuso”.
Che all’interno delle forze armate sudanesi ci fosse malcontento per la politica di Abdalla Hamdok, era cosa nota. Il governo, consapevole dei rischi che il Paese stava correndo, aveva programmato l’epurazione dei tanti militari rimasti fedeli all’ex regime di al-Bashir. Tra questi, anche le Forze di supporto rapido – organizzazione paramilitare creata dall’ex presidente per reprimere le rivolte in Darfur – restie a rinunciare all’enorme potere che consente di controllare, indirettamente, l’80% dell’economia sommersa sudanese. Da qui la consapevolezza che, senza una riforma dell’esercito, non sarebbero stati possibili quei cambiamenti strutturali necessari. Ma i militari sono stati più veloci del governo.
Questo drammatico susseguirsi di eventi si inserisce in un contesto economico-sociale molto grave, che mette a dura prova la vita della popolazione. Procacciarsi cibo – visti anche gli aumenti dei prezzi delle materie prime e dei generi di prima necessità – è diventato un grosso problema. Per comprare il pane ci sono lunghe file, e c’è scarsità di carburante. Lo stato dell’economia si è aggravato anche a causa del momentaneo blocco dei finanziamenti internazionali, che il Paese era riuscito a ottenere. Le cifre della crisi sono impressionanti: 388% di inflazione, cinquanta miliardi di debito estero, una crescita prevista per il 2023 dello 0,9 e uno tasso di disoccupazione del 17,7%. Un quadro che il premier – ora tornato in carica – contava di poter cambiare.
In un’intervista rilasciata alla Cnn, e riportata dall’Ispi (Istituto politiche internazionali), Hamdok, tra l’altro economista di rilievo e già vicesegretario della Commissione economica dell’Onu per l’Africa, puntava sulla stabilizzazione della moneta, sull’abbassamento dell’inflazione, e dunque sul possibile e auspicabile arrivo di capitali esteri, così da ridare fiato a un’economia in grave affanno. In ballo, come dicevamo, anche la collocazione geopolitica del Paese. “Il Sudan gode di una posizione strategica. Se faremo bene il nostro lavoro – aveva detto Hamdok –, questo avrà un impatto estremamente positivo sull’intera regione”.
Appare quindi strategicamente importante sostenere il processo di democratizzazione in Sudan. La sua rimozione dalla lista statunitense dei “Paesi canaglia” può aprire la strada a investimenti e a una riduzione del debito con il Fondo monetario internazionale. Insomma, a un ripristino della situazione precedente al colpo di Stato. Ma il potere dell’esercito è tuttora forte, e bisognerà capire se sarà disposto a condividere il tentativo di rinnovamento messo in atto dal premier, abbandonando almeno una parte dello smisurato potere di cui gode. Diversamente, ci sarebbe un ritorno del caos in un Paese in bilico tra la speranza e l’incubo.