Quando molte cose ci erano più chiare, si diceva che i nomi sono conseguenza delle cose. Diventa così curioso notare come petromonarchi del Golfo e iraniani, in guerra perpetua tra loro, si ritrovino ognuno per proprio conto dietro lo stesso nome: Raisi. Raisi è infatti il nome del nuovo presidente dell’Iran, con eccellenti record nella repressione e nella violazione dei diritti umani, e al-Raisi è quello candidato e portato dai petromonarchi alla presidenza dell’Interpol. Anche lui è accusato di torture. La novità che interviene al suo riguardo è che, per essere eletto, ha dovuto ottenere copiosi consensi, visto che il presidente dell’Interpol (la cui sede centrale è a Lione, in Francia) viene eletto dai delegati dei diversi Paesi aderenti con una maggioranza qualificata, nel suo caso con il 68,9%. Ahmed Naser al-Raisi ha sì avuto bisogno di tre votazioni per farcela, ma alla fine è passato: ispettore generale del ministero degli Interni degli Emirati arabi uniti, assumerà ufficialmente la presidenza dell’Interpol nel 2022.
A suo carico non ci sono solo le parole di due cittadini europei, detenuti in passato negli Emirati arabi uniti, che lo accusano di averli fatti torturare. Ha scritto Luigi Mastrodonato su “Wired”: “La vicenda forse più nota a livello internazionale è quella di Ahmed Mansoor, attivista per i diritti umani arrestato prima nel 2011 e poi di nuovo nel 2017 per “offesa allo status e al prestigio degli Emirati arabi uniti e dei suoi simboli, compresi i suoi leader”. L’uomo, che tramite un blog e i social network denunciava le violazioni dei diritti umani nel Paese, aveva firmato diversi appelli per riforme politiche e negli ultimi anni ha ricevuto molti premi internazionali per il suo attivismo che non ha potuto ritirare prima a causa del ritiro del passaporto, e poi perché sta scontando una condanna di dieci anni di carcere. Gli attori internazionali governativi e non governativi non hanno mai perso di vista questa storia: lo scorso settembre il parlamento dell’Unione europea ha approvato l’ennesima risoluzione di condanna degli Emirati. E Il Gulf Centre for Human Rights ha presentato una denuncia in Francia proprio contro il nuovo presidente dell’Interpol, accusandolo di “atti di tortura e barbarie” nel caso Mansoor.
L’imputazione ossessiva di “offesa al prestigio nazionale” è ricorrente in tanti Paesi governati da regimi laici o da religiosi, pur schierati sugli opposti versanti del grande conflitto che oppone il fronte del primo Raisi al secondo. Al riguardo, basterà citare gli arcinemici Erdogan e Assad, uniti dalla frequenza con cui i loro sistemi perseguono questo “reato”, e il corteggiato da entrambi, l’egiziano al-Sisi.
Che la situazione locale dei diritti sia questa molti lo sostengono da tempo, e che questa realtà riesca a essere esportata, a imporsi al mondo e nel mondo, è molto più che sorprendente. È preoccupante. Che l’Interpol finisca in queste mani ci dice certamente di loro, ma ci parla anche di noi. La famosa esternalizzazione dei confini, di fatto, cosa fa se non affidarli alle cure di sistemi come quello che il nuovo capo dell’Interpol rappresenterebbe? E con il peso che l’esternalizzazione dei confini ha assunto nella e per la sicurezza di tanti Paesi, questa scelta sembra rispondere a una sorta di neoprotezionismo dei diritti: contrastare diritti fuori dai confini del “mondo libero” pretendendo di aumentarli al suo interno. Se questa fosse l’ottica, il ruolo dell’Interpol non potrebbe certo essere ritenuto irrilevante, visto che contrasta il crimine internazionale e consente la cooperazione tra gli uffici centrali delle varie polizie nazionali. È un’idea bicefala di sicurezza che richiede repressioni esterne al “mondo libero” per consentire tutele interne. Le merci sarebbero così le uniche titolari di autentici diritti in entrambe le aree?
Vista in questo modo, forse con un eccesso di tinte fosche, non sorprende che, proprio nelle stesse ore, l’Interpol abbia tolto le restrizioni che aveva imposto all’ufficio centrale della polizia siriana. Espressione di un regime accusato di crimini contro l’umanità, visto che questi crimini sono stati commessi a carico di un popolo che sta fuori dall’aera del “mondo libero”, perché mai imporle delle restrizioni? Chi giustifica tutto ciò dice che, in certi contesti, non si può certo andare per il sottile: c’è del vero, ma visto che se lo sostiene un campo lo potrà sostenere anche l’altro, l’esito del conflitto mediorientale rischia di essere una estremizzazione e radicalizzazione dello scontro. Accettare l’espressione della repressione emiratina a livello di consesso internazionale non potrà che peggiorare le cose.