Nell’era del mito antipolitico dei “tecnici”, una delle bizzarrie del governo Draghi è stata la scelta di istituire un Comitato scientifico per lo studio della revisione del reddito di cittadinanza, presieduto da un’autorevolissima studiosa come la sociologa Chiara Saraceno, per poi disattenderne largamente le indicazioni. Con questo intervento sul sito lavoce.info, la stessa Saraceno ha preso di mira le restrizioni introdotte con la legge di bilancio varata dal Consiglio dei ministri e attualmente all’esame del Senato, spiegando che “alcune delle modifiche inserite sembrano rispondere più a una narrazione più o meno fantasiosa e ideologica, e pesantemente negativa, sui beneficiari del reddito di cittadinanza che a un’analisi dei dati empirici. In particolare, la narrazione per cui i beneficiari rifiuterebbero le offerte di lavoro perché il reddito di cittadinanza dà loro abbastanza di che vivere, non trova riscontro empirico non solo nelle somme effettivamente percepite – 577 euro in media per famiglia, non per individuo, al mese – ma neanche in dati attendibili.
Manca infatti una base dati nazionale che documenti le offerte effettivamente fatte ai beneficiari ‘occupabili’ (un terzo circa di tutti i beneficiari) e i rifiuti da parte di questi ultimi. Non è ancora stata risolta la questione di come mettere in comunicazione e condivisione centri per l’impiego che dipendono dalle regioni. Quello che sappiamo è che meno di un terzo dei teoricamente ‘occupabili’ è stato preso in carico da un Cpi. Il che non significa che abbia ricevuto una proposta di lavoro o di formazione, ma che il suo caso ha cominciato a essere esaminato. Quindi la stretta inserita in finanziaria, in base alla quale le offerte rifiutabili senza decadere dal beneficio non sono più tre, ma due, ha valore puramente simbolico, che rafforza l’idea dei beneficiari come pigri nullafacenti, evitando di mettere a fuoco la carenza di politiche attive e la mancanza di domanda di lavoro di qualità adeguata alle basse qualifiche della stragrande maggioranza dei beneficiari”.
Luciano Gallino, nel suo Il lavoro non è una merce, a suo tempo scrisse appunto di uno “schema interpretativo che la destra applica sin dal primo Ottocento al mondo del lavoro: se uno è senza lavoro, in fondo la responsabilità è quasi certamente sua”. Ma nelle osservazioni della presidente del Comitato scientifico sul reddito di cittadinanza c’è un elemento in più: questo schema, a suo giudizio, viene applicato, a dispetto del mito della competenza dei tecnici, addirittura a prescindere da “dati attendibili”, cioè esclusivamente per soddisfare gli oppositori della misura, nonostante le conferme concrete sulla sua funzione di contrasto reale alla povertà.
L’assegno c’è, i servizi latitano
La misura nasce con un’ambiguità di fondo: per vararla nel corso del governo Conte 1, fondato sul patto M5S-Lega, i suoi promotori dovettero accettare di enfatizzare l’importanza della ricollocazione lavorativa dei beneficiari. Il Comitato, nella relazione introduttiva allo studio sul redito di cittadinanza, osserva che “l’aver iniziato l’erogazione monetaria senza aver prima provveduto a mettere in grado i servizi – centri per l’impiego, servizi sociali territoriali – di far fronte ai nuovi compiti loro assegnati ha avuto le sue buone motivazioni nel desiderio di non tardare oltre a far fronte ai bisogni materiali di chi si trovava in povertà. Ma ha fortemente disallineato sostegno monetario e iniziative di attivazione, una situazione ulteriormente peggiorata con la pandemia”. Secondo i dati forniti dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che pure ha promesso un “consolidamento” degli organici, al momento “lo staff dei centri per l’impiego in Italia, nel 2020, si attesta a 7.772 unità” a fronte di “61.369 la Germania, 51.208 la Francia, 11.222 la ben più piccola Svezia, 19mila la Norvegia, 11.486 la Repubblica ceca e 20.067 la Polonia”.
Poveri o irresponsabili?
Nel frattempo, il Comitato presieduto da Saraceno ha indicato alcune “criticità” del reddito di cittadinanza da correggere: i criteri di accesso; le difformità nel sostegno al reddito a seconda dell’ampiezza e composizione per età della famiglia; la valutazione delle risorse disponibili (reddito, ricchezza mobiliare e immobiliare) per la determinazione dell’entità dell’assegno; i patti per il lavoro; i patti per l’inclusione (ovvero i progetti di utilità sociale nei quali i Comuni e altre istituzioni territoriali dovrebbero inserire i beneficiari).
Tra le proposte avanzate nei documenti ufficiali del Comitato, si segnalano alcune vere e proprie censure dello schema repressivo di alcune norme. Per esempio, si propone di “eliminare le severe disposizioni che, ai fini della congruità dell’offerta lavorativa, fissano, dopo la prima offerta, il distanziamento del luogo di lavoro entro 250 chilometri dal luogo di residenza, ovvero su tutto il territorio nazionale, disposizioni palesemente assurde e inutilmente punitive per lavori spesso a tempo parziale e con compensi modesti”. O si critica l’obbligo di spendere l’intero importo del reddito entro il mese successivo alla sua erogazione, misura che “impedisce alle famiglie di risparmiare, anche a scopo precauzionale, in vista di spese future. Ciò è in contrasto con ogni principio di saggia gestione del proprio bilancio. I vincoli all’utilizzo della carta, inoltre, non solo limitano di fatto la libertà delle persone, ledendo il loro status di cittadini adulti e responsabili. Suggeriscono anche una visione dei beneficiari come potenzialmente incapaci o irresponsabili solo perché poveri”.
Insomma, il legislatore è prigioniero di un paradosso: il più vasto provvedimento di contrasto alla povertà è pesantemente segnato da una impostazione ideologica che colpevolizza i destinatari, li considera sospetti per natura. È la destra dell’Ottocento descritta da Gallino.
La destra e il tema dei salari reali
Ma qual è la composizione di questo fronte anti-reddito di cittadinanza? Qui il terreno si fa scivoloso: fra primato dei tecnici, grande coalizione di emergenza che sostiene il governo Draghi, identità sfuggenti dei partiti politici e dei rispettivi leader (Silvio Berlusconi, forse con un occhio alle sue ambizioni quirinalizie, ha recentemente riconosciuto i pregi di una misura contro la quale i suoi si battono da anni in parlamento), i confini di questa destra sono assai difficili da delimitare. Stavolta ci aiuterà uno stralcio dell’intervento di Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, che si distingue proprio per chiarezza e sincerità e consente di sgombrare il campo dalle cortine fumogene che vengono agitate da qualche anno sul tema del reddito di cittadinanza (ne abbiamo parlato anche qui).
Cosa ha detto nell’aula di Montecitorio l’esponente di Fratelli d’Italia, nel dibattito (il resoconto integrale, per chi ama approfondire) seguito all’informativa del ministro del Lavoro, Andrea Orlando, sul tema del reddito di cittadinanza? “Il reddito di cittadinanza è veleno, dal punto di vista economico. Perché? Perché distorce il mercato del lavoro e mette in concorrenza il salario con la possibilità di ricevere una pari cifra senza lavorare”. Chiarissimo. “Nelle aree del Sud, a Napoli, un lavoratore del call center – ha ricordato Lollobrigida – percepisce 583 euro mensili, in pratica pari a quello che viene percepito in media da un percettore del reddito di cittadinanza; una segretaria o un segretario, nel Sud del Paese, riceve mediamente tra gli 850 e i 738 euro mensili, una situazione che mette in condizione di preferire ovviamente la possibilità di non andare a lavorare, percependo una pari cifra, piuttosto che alzarsi la mattina, mettere la benzina nella propria autovettura, se la si possiede, oppure prendere un mezzo pubblico pagando l’abbonamento”.
Chiarissimo e sincero, appunto. Con 600 o 800 euro al mese, per chi lavora l’obiettivo enunciato dalla Costituzione di “assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” diventa una chimera. Fratelli d’Italia, non certo isolata in parlamento su questo tema, si batte – è legittimo – perché quel tipo di mercato del lavoro non sia messo in discussione. Il motivo principale per il quale nel Paese dei 120 miliardi annui stimati di evasione/elusione fiscale e contributiva il mondo politico e quello dell’informazione parlano ossessivamente degli abusi (per poche decine di milioni di euro) dei percettori del reddito di cittadinanza è che ha avuto, almeno in parte, l’effetto che le rappresentanze organizzate delle imprese temevano quando fu introdotto: ha indebolito il ricatto occupazionale per alcune fasce di lavoratori.
Non è un caso che, nel suo discorso in aula a Montecitorio, il ministro Orlando abbia usato per ben dodici volte la parola “controlli”. Mai nessuna erogazione dello Stato (ammortizzatori sociali, sgravi fiscali alle imprese, incentivi “ecologici” per l’edilizia o l’industria automobilistica) è stata sottoposta a questo continuo scrutinio moral-poliziesco, fino all’estremo limite raggiunto dal leader di Italia viva, Matteo Renzi, che lo ha etichettato come “reddito di criminalità”. Orlando, parlando ai deputati, ha difeso il reddito di cittadinanza, seppure senza troppa energia: “I poveri esistono”, ha ricordato, e sono “generati da un sistema. Questo sistema si può discutere e correggere, ma produce povertà e la povertà è un dato che si può ignorare o affrontare. Noi ci siamo dati, nel corso di questi anni, questo strumento che credo sia, come tutti, migliorabile, ma, senza strumenti, questo dato è solo fonte di disperazione e di rassegnazione”. Un tema non da poco, per una qualsiasi sinistra che volesse dare segnali di vita.