Si discute troppo poco di legge elettorale. E ciò nonostante l’Italia si contraddistingua per avere cambiato più volte, negli scorsi decenni, il proprio sistema di elezione dei rappresentanti in parlamento (in un caso perfino con un dispositivo che, per come faceva schifo, era soprannominato “porcellum”). La legge al momento in vigore, detta più gaiamente “rosatellum”, non è tra le peggiori possibili, ma ha comunque delle criticità intrinseche – e soprattutto è diventata inadeguata a causa del robusto taglio dei parlamentari effettuato tramite un referendum. La vera questione, dunque, non è se dopo l’elezione del presidente della Repubblica (Draghi o non Draghi che sia) si voterà immediatamente o alla scadenza naturale della legislatura nel 2023, ma se alle elezioni si andrà con una legge come quella attuale, che è un misto di proporzionale e di maggioritario, o piuttosto con un’altra.
Il nostro Aldo Garzia, in un editoriale pubblicato qualche giorno fa, ha rimarcato come Letta e il Pd non sembrino più preoccuparsi della faccenda, sebbene, nell’accordo con i 5 Stelle per il governo Conte 2, la questione fosse stata apertamente menzionata. Se appare impossibile, dopo la riduzione del numero dei parlamentari, non immaginare almeno un ridisegno dei collegi elettorali, perché non mettere mano a una riforma complessiva?
La scelta, per quanto ci riguarda, è a favore di un sistema proporzionale, con uno sbarramento diciamo al 4%. Perché? Anzitutto perché il proporzionale, in termini generali, è il sistema più in linea con la nostra Costituzione, che è quella di una repubblica parlamentare. Porre al centro il parlamento, e la sua articolazione in due Camere, ha come corollario il fatto che siano i partiti il cuore pulsante della vita politica. Andrebbero perciò combattuti a fondo il leaderismo e il personalismo dei gruppi di potere che, da qualche decennio ormai, sono completamente scollegati dalle organizzazioni di partito. Se a un tipo come Renzi è stato possibile in passato dare la scalata al Pd, è grazie alla perversione post-berlusconiana affermatasi nella vita politica: per cui si può mettere su una lobby, più che una corrente in senso tradizionale, e ottenere un successo. Appare una degenerazione anche la possibilità – consentita dall’attuale legge – di inserire il nome del leader nel contrassegno elettorale. A questo privilegio leaderistico, per così dire, fa da pendant il fatto che, con le liste bloccate, l’elettore non abbia a disposizione alcuna possibilità di scelta dei propri rappresentanti, i quali sono eletti secondo l’ordine di lista deciso da una ristretta cerchia di dirigenti. Il sistema proporzionale, allora, sarebbe quello che meglio consentirebbe una rifondazione della politica in Italia – specialmente se accoppiato a una riforma che imponga alcuni criteri di democraticità nella vita interna dei partiti (si pensi che Forza Italia, dalla sua nascita a oggi, non ha mai tenuto un congresso).
L’opzione per un proporzionale puro, purtuttavia con uno sbarramento, sarebbe anche quella più adeguata al momento politico presente. Che vede un pulviscolo di partitini, i quali sarebbero indotti a unirsi per cercare di superare una soglia più elevata (attualmente lo sbarramento è solo al 3%). Il proporzionale prevede inoltre, come in Germania, che gli accordi politici, i “contratti di governo”, si stipulino dopo le elezioni – in parlamento, appunto – e non prima, come succede con il maggioritario, che spinge ad alleanze spurie, strette al fine di conquistare i seggi uninominali. In fondo lo schema proposto dal proporzionale è quello – saltato fuori però unicamente per caso, in conseguenza del risultato elettorale – mediante cui si sono formati i governi Conte 1 e Conte 2. Gli accordi, insomma, vanno fatti in parlamento: decisivo è il momento in cui ciascun partito di una coalizione in costruzione deve mettere in gioco il proprio programma, rinunciando a qualcosa, per pervenire a un accordo.
Però così i programmi elettorali possono essere esposti in maniera chiara, partito per partito, davanti all’elettorato, che avrà modo di formarsi un giudizio intorno a una linea politica. Insomma, se si vuole ritornare ad appassionare, almeno un po’, l’elettore, contrastando il fenomeno dilagante dell’astensionismo, è al proporzionale che bisogna guardare.
Ci sono poi delle ragioni di opportunità, oggi in Italia, che consiglierebbero di battersi per adottare questo tipo di sistema elettorale. Gli elettorati di “centrosinistra” (ammesso e non concesso che questo termine corrisponda davvero a ciò che prevalentemente si intende come alleanza tra il Pd e i 5 Stelle) non sono del tutto amalgamabili. Il movimento di provenienza grillina resta uno strano oggetto, il derivato di un’esperienza fortemente populistica: e gli elettori più propriamente “neoqualunquisti” – quelli che ne decretarono il travolgente successo del 2018 – sarebbero allontanati da un’alleanza elettorale preventiva, indotti in gran parte a rifugiarsi nell’astensione. Già il Fronte popolare del 1948 – che era certamente tutt’altra cosa –, sommando insieme i voti degli elettori socialisti e comunisti, non raggiunse quel risultato che il Partito comunista e quello socialista – divisi nelle urne ma uniti da un patto – avrebbero potuto ottenere. Tutto ciò dovrebbe costituire materia di riflessione per il Pd e il suo segretario. Sembra invece che non lo sia.