Bisogna andarci con i piedi di piombo, con la consapevolezza che si possono avanzare delle ipotesi ma che ciò che davvero è accaduto non lo sapremo mai – almeno fino a quando resterà in piedi l’attuale regime cinese, o non cominci anche al suo interno una specie di glasnost alla Gorbačëv.
La congettura è però del tutto plausibile: il virus che ci tormenta da quasi due anni potrebbe essere sfuggito accidentalmente da quel laboratorio di Wuhan in cui si pratica la manipolazione genetica dei virus, per passare poi nella popolazione, nel corso non di mesi ma di anni, adattandosi sempre più agli umani attraverso le sue mutazioni. È accertato che già dal 2013, in una grotta del sud della Cina, erano stati individuati dei pipistrelli portatori di un coronavirus molto simile al Covid-19. E si dà il caso che la ricercatrice di Wuhan Shi Zhengli (soprannominata Batwoman) studiasse proprio i pipistrelli e i loro coronavirus al fine di seguirne l’evoluzione e prevenirne gli eventuali passaggi negli esseri umani. In questo quadro – ripeto, puramente ipotetico – il famoso mercato di Wuhan, da cui l’epidemia ufficialmente avrebbe preso le mosse, sarebbe stato solo il moltiplicatore di qualcosa che avrebbe avuto la sua origine in ricerche di laboratorio.
Le origini del virus ci interessano, ovviamente, ma non sono l’aspetto principale della faccenda. Bisogna considerare infatti che, attenendosi alla biologia darwiniana, le pandemie sono dei meccanismi di controllo delle popolazioni in caso di sovraffollamento – ed è indiscutibile che ci troviamo adesso in una fase di sovrappopolazione a livello mondiale –, e che, per soprammercato, il forsennato modello di sviluppo cui abbiamo assistito soprattutto negli scorsi decenni, favorendo i viaggi e la mobilità in genere, accresce di molto le possibilità di propagazione dei virus. In altre parole, in un modo o nell’altro – avvertono i biologi, e la cosa mi è stata confermata in una conversazione da una intelligente ricercatrice –, dobbiamo aspettarci altre pandemie perfino peggiori di quella che stiamo vivendo.
Ora, come nel passato la peste provocava una fuga verso un’irrazionale ricerca di capri espiatori (gli “untori” di manzoniana memoria), così la recente pandemia ha messo in moto un immaginario complottista sempre pronto a manifestarsi nelle salse più svariate. E sebbene questo (ho cercato di metterlo in luce in un precedente articolo) abbia più o meno apertamente una connotazione di estrema destra, è possibile ritrovarlo anche in una certa sinistra ormai priva di bussola, disposta a vedere nel capitalismo non il più ampio contesto in cui avvengono i fenomeni sociali – anche quelli che si possono definire biologico-sociali come le pandemie –, ma una sorta di onnipotente dio malvagio che opera a maggior danno degli umani. Può prendere piede allora un’ideologia trasversale (come la definisce la biologa sopra citata), in cui spinte irrazionali di destra e di sinistra si tengono per mano, magari nella denuncia della macchinazione mondiale che avrebbe provocato la pandemia al fine di far soldi con i successivi vaccini: sicché, in ultima analisi, da un discorso ricostruttivo intorno all’eventuale défaillance di una ricerca particolare si passa alla denigrazione della ricerca scientifica in generale.
Ciò è stupido, d’accordo: ma la stupidità, come la paura che genera mostri, fa parte della vicenda umana allo stesso titolo dell’intelligenza. Dovremmo quindi seriamente interrogarci intorno alla maniera in cui sia possibile ridurne il grado attraverso una ripresa, uno sviluppo e una diffusione dello spirito critico.
Ci fu un tempo – diciamo nel Settecento e nel successivo positivismo ottocentesco – in cui sembrava che la superstizione fosse prossima a scomparire definitivamente dalla faccia della terra. Mai previsione si rivelò più sbagliata. La scienza moderna non era fatta per prendere il posto di altre credenze o costrutti mentali, ma solo per affiancarsi ad essi, in una coesistenza instabile dei diversi. Un’intelligenza critica dovrebbe anzitutto partire da questo dato di fatto. Anche perché gli imprenditori della stupidità, come quelli della paura, sono sempre pronti a tentare di trarre vantaggio – sul piano politico come su quello più vasto delle possibilità d’influenza – dalla credulità e dalla disinformazione. Che questo sia imputabile unicamente all’esplosione della comunicazione mediante Internet, è quanto meno dubbio: menzogne e falsità sono sempre state messe in circolazione più o meno ad arte, e la rete oggi non fa che moltiplicarne la diffusione.
Un illuminismo di massa su larga scala, che sarebbe l’aspirazione propria di qualsiasi volontà di spirito critico, è un obiettivo irraggiungibile. La consapevolezza che il nostro sapere possa procedere solo mediante “prova ed errore” – e attraverso ipotesi che, una volta provate, danno luogo ad altre ipotesi, in una catena infinita o addirittura indefinita – è qualcosa che non riuscirà mai ad affermarsi pienamente. Per questo mi è capitato di definire una volta l’illuminismo come una “fatica di Sisifo”, in cui la pesante pietra della ragionevolezza, una volta portata su, tende a rotolare di nuovo giù – e bisogna quindi dedicarsi incessantemente allo sforzo di sospingerla ancora in alto.
È secondo questo spirito, per il quale un’approssimazione all’infinito ha però comunque ricadute nella realtà quotidiana, che è necessario atteggiarsi sia quando si tratta delle origini del virus sia quando si prendono in esame le sue conseguenze. La irrazionalità e l’isteria di certe denunce, riflesso di un pressoché ancestrale bisogno di aggrapparsi a delle spiegazioni semplificatorie rispetto alla generale complessità dei fenomeni, ci saranno sempre. A noi il compito di contrastarle con pazienza.