“Un Chile bien diferente”. Così cantavano gli Inti Illimani, lo storico gruppo musicale cileno che, insieme con tanti altri artisti, fece da amplificatore alla sofferenza di un popolo schiacciato dalla dittatura militare che abbatté, nel 1973, il legittimo governo presieduto da Salvador Allende. E un Cile diverso volevano gli studenti e le studentesse cilene scesi in piazza il 7 ottobre del 2019. Una mobilitazione ancora in corso, che ha messo in moto un meccanismo democratico e rivoluzionario, e che, malgrado la pesante repressione governativa, non vuole fermarsi e potrebbe portare alla vittoria gli esponenti di quell’esperienza in occasione delle elezioni presidenziali del prossimo 21 novembre.
Un voto che sancirebbe una volta per tutte la fine di una fase storica ancora legata alla dittatura di Pinochet e la sconfitta degli eredi di quel periodo buio, ora rappresentati dal presidente Sebastián Piñera. La rivolta nacque banalmente dall’aumento del prezzo del biglietto della metro, ma poi assunse tutt’altro significato fino a esigere la cancellazione della Costituzione del 1980, lasciata in eredità dalla giunta militare. Nessuna, tra le forze politiche cilene, aveva osato o tentato di avanzare una richiesta del genere. Neanche la Nueva majoria – la più ampia coalizione allargata ai giovani comunisti di Camila Vallejo –, nata nel 2013 per sostenere la candidatura della socialista Michelle Bachelet.
Il sì dei cileni e delle cilene per una nuova Costituzione, nel referendum dell’autunno del 2020, e la netta vittoria della sinistra nel voto per l’Assemblea costituente dello scorso maggio lasciano ben sperare per la prossima consultazione elettorale. Lo scorso 18 ottobre oltre cinquanta iniziative organizzate su tutto il territorio nazionale hanno voluto festeggiare i due anni dall’inizio della rivolta e l’avvio della redazione della nuova Costituzione. Quasi una festa anticipata per l’esito della vicina consultazione elettorale finalizzata non solo a eleggere il capo dello Stato, ma anche a rinnovare il parlamento e a scegliere i governi di regioni e comuni.
Attenzione però a cantare vittoria, perché “la maledizione della sinistra” è ancora una volta dietro l’angolo, malgrado in Cile ci sia una tradizione di unità tra le forze progressiste. Sono tre i candidati che rappresentano quest’area politica: la vera sorpresa è Gabriel Boric, giurista, 35 anni, età minima per candidarsi al Palazzo della Moneda, rappresentante del Frente amplio. Ha vinto le primarie con la lista di sinistra Apruebo dignidad contro il più radicale esponente del Partito comunista Daniel Jadue, sindaco di Recoleta, cittadina nella provincia di Santiago. Il probabile successore di Piñera si è già messo in evidenza nel 2011 come uno dei leader della rivolta giovanile dei “pinguini”, tanto da essere eletto alla testa della Federazione degli studenti dell’università del Cile, succedendo alla comunista Camila Vallejo. Nel 2014 è diventato deputato per il partito Convergenza sociale, che si è unito alla coalizione del Frente amplio quando è stato fondato nel 2017.
L’altra candidata progressista è Yasna Provoste. Cinquantenne, sportiva e insegnante di educazione fisica, è candidata con il Nuevo pacto social, un’alleanza di radicali, democratici, socialisti, democristiani. A questi due candidati, che si rivolgono a due elettorati affini, si aggiunge anche Marco Enríquez Ominami, già socialista e figlio dello storico leader del Mir (Movimento izquierda revolucionaria), Miguel Enríquez, ucciso durante la dittatura.
La sinistra, o centrosinistra che dir si voglia, si presenta dunque divisa. Questo quadro politico potrebbe favorire il candidato della destra Sebastián Sichel, avvocato, una gioventù passata nelle file della Democrazia cristiana e ministro nel secondo governo Piñera, che ha sconfitto lo storico leader della destra peggiore Joaquin Lavin, consulente economico durante la dittatura ed ex ministro dell’attuale esecutivo.
Per la sinistra cilena Boric rappresenta una novità assoluta. Non ha radici nei vecchi e ormai superati partiti della sinistra tradizionale, ed è attento alle tematiche ambientaliste e al femminismo, oltre che ovviamente ai diritti sociali. Ha contribuito, inoltre, a trovare un accordo tra destra e sinistra per definire le regole del referendum costituzionale.
La sfida per chi vincerà le elezioni è enorme e nello stesso tempo ben chiara: basta con un modello economico e sociale privatizzato e favorevole solo a una minoranza della popolazione. Un’idea di Paese frutto del pensiero di Milton Friedman e dei Chicago Boys, fatto proprio dalla giunta militare cilena, e diventato poi un modello tuttora in gran voga in tutto il pianeta, che rende istruzione, sanità e sistema pensionistico un privilegio e non un diritto.
“In Cile ci sono oggi 1,2 milioni di studenti nel sistema di istruzione universitario – dice Fernando Ayala, ex ambasciatore, economista e consulente della Fao – equivalente al 6,6% di una popolazione di diciotto milioni di abitanti. Tuttavia, solo circa 200mila di essi sono iscritti alle diciotto università pubbliche esistenti. Il 55% di loro gode di istruzione gratuita grazie alle riforme promosse durante il governo dell’ex presidente Michelle Bachelet (2014-18). Ma – continua Ayala – le cifre mostrano che quasi un milione di studenti frequenta università e istituti privati”. Non va meglio per la sanità. Dopo essere stato uno dei paesi più virtuosi nel settore di tutto il continente, con l’arrivo dei militari tutto o quasi è passato nelle mani dei privati.
Secondo quanto riporta il sito “Salute internazionale”, “con il ritorno alla democrazia nel 1989, il nuovo governo, formato da una coalizione di partiti di centrosinistra, non riformò il sistema di Pinochet, limitandosi solo a incrementare i fondi pubblici, soprattutto per gli ospedali. Ciò però non fu accompagnato da un miglioramento dell’efficienza. Così la cattiva gestione nei servizi pubblici portò a un peggioramento nella qualità delle cure e a un allungamento delle liste d’attesa, a tutto vantaggio del sistema privato”.
Il discorso non cambia quando si affronta il tema pensioni. Per Giovanni Agostinis, docente di scienze politiche presso l’Università cattolica del Cile e collaboratore dell’Ispi (Istituto studi politiche internazionali) “il sistema pensionistico cileno è dato in gestione a compagnie assicurative private, le quali erogano pensioni misere che non arrivano ai 400 euro al mese di media. Il privato fa il suo lavoro: generare profitto. È lo Stato che non ha fatto il suo lavoro in Cile: garantire alla popolazione l’accesso ai servizi basilari”. Anche in questo caso le riforme introdotte dal governo Bachelet hanno modificato solo in minima parte questo sistema, introducendo delle pensioni di base a carico della fiscalità generale. Un primo passo, ma ancora insufficiente, per ribaltare questo sistema iniquo.
L’altro problema drammatico riguarda i diritti dei mapuche, i nativi cileni, rappresentati all’interno dell’Assemblea costituente. A pochi giorni dall’appuntamento elettorale le loro terre sono sottoposte a una militarizzazione che lede sempre più i loro diritti. I mapuche, che con oltre 1,7 milioni di persone costituiscono quasi il 10% della popolazione cilena, si battono per la restituzione del Wallmapu, un loro territorio nelle mani di aziende e proprietari terrieri.
Insomma la sfida che avrà di fronte il vincitore delle elezioni è da far tremare i polsi. Serve una cancellazione totale delle regole scritte durante la dittatura, riscrivendone altre nella nuova Costituzione. È finito il tempo dei piccoli aggiustamenti che da trent’anni caratterizzano l’operato delle forze democratiche cilene, impantanate dal loro moderatismo scosso solo dai giovani del 2019. E solo la vittoria di Boric può far voltare pagina e dare una speranza a un Paese che ha tanto sofferto.