Se il leader del sindacato italiano per tradizione meno propenso allo scontro con le controparti e il governo, la Cisl, parla, a proposito delle decisioni assunte sulle pensioni, di misure che ci accompagneranno “verso la piena normalità della legge Fornero” e avverte che “tutto ciò per noi è inaccettabile” è forse arrivato il momento di fermarsi a riflettere. E di chiedersi fino a che punto e in che modo inciderà sul nostro futuro il governo presieduto da Mario Draghi con un piglio decisionista – piuttosto naturale per banchieri, imprenditori e militari, il che ci ricorda per quale motivo, in genere, i sistemi democratici vivono meglio senza affidarsi a questo genere di figure – che gli stessi sindacati hanno dovuto sperimentare in questi giorni.
Non sarebbe sensato attendersi una mobilitazione sindacale troppo vigorosa per i prossimi mesi, ma le tensioni non mancano. A dispetto degli sforzi sostenuti dal Pd, in questi mesi, per “intestarsi” l’agenda Draghi, c’è da prevedere qualche imbarazzo al Nazareno per il malumore delle organizzazioni dei lavoratori di fronte al capo del governo che, secondo il gergo giornalistico d’antan, tornato in auge nel 2021, “tira diritto”. La norma-tampone di “quota 102” serve ad attutire l’impatto per partiti e sindacati, pur in sofferenza. La Fiom annuncia uno sciopero contro la manovra, ma è già bollato come “fuga in avanti” rispetto alla ritualità dell’unità fra le confederazioni. Qualche negoziato parlamentare è prevedibile sugli strumenti parziali esistenti per la flessibilità in uscita dei pensionandi.
Il punto centrale resta un altro, ed è purtroppo lontano dai tavoli governativi: la “sostenibilità” dei conti previdenziali non esiste senza un mercato del lavoro che ricostruisca il circolo virtuoso fra occupati e pensionati. Investimenti pubblici per creare lavoro – e non solo “Sussidistan” per le imprese – riduzione della palude del precariato e delle carriere lavorative intermittenti, inversione di tendenza sui salari (bruciano i dati Ocse sull’Italia fanalino di coda degli ultimi decenni), magari a cominciare dall’introduzione di un salario minimo, tema tabù in Italia, sono alcuni dei punti ineludibili per riavviare una discussione seria sul futuro. Al momento, il Draghi che rinvia la riforma delle pensioni e accompagna il ritorno alla “normalità” della legge Fornero (di fatto colpendo le stesse fasce sociali che più duramente hanno sofferto durante la pandemia), non sembra lo stesso che, quando si parla di tasse sul patrimonio o sui redditi alti, spiega che “è il momento di dare e non di prendere”.
È ancora lecito domandarsi, quindi, “come finirà” la partita della risposta globale alla pandemia? Non quella sulle misure di isolamento, tracciamento, cura e prevenzione (con i vaccini) ma quella che riguarda le scelte di governi e istituzioni internazionali in materia di politica economica, fiscale, monetaria. Indubbiamente questa partita non è finita ma alcuni fatti, nei vari ambiti che riconosciamo come vicini a noi e decisivi per il nostro futuro, cioè le politiche del governo italiano, le posizioni delle istituzioni europee, le scelte della Casa Bianca, ci danno qualche traccia per valutare. Abbiamo fatto cenno al tema delle pensioni. “Terzogiornale” ha esaminato qui lo zelo, forse addirittura la fretta eccessiva di Draghi e del suo braccio destro all’Economia Daniele Franco nel garantire, per il prossimo triennio, il deciso riavvicinamento ai vecchi parametri del Patto di stabilità europeo. Questo, nonostante il fatto che la crisi innescata dalla pandemia avesse reso evidente come a tenere in piedi il sistema economico globale fosse un rinnovato interventismo di Stati e banche centrali; e avesse spostato un po’ l’asse del dibattito dell’ultimo biennio.
Lo stesso Draghi ha ricordato, a più riprese, la necessità di uscire dalla crisi con nuove regole europee e vincoli di bilancio meno ottusi per i singoli membri dell’Unione europea. A livello europeo cresce la pressione dei conservatori per una politica monetaria più severa: un commentatore autorevole come Wolfgang Munchau ha recentemente messo sotto accusa i modelli di previsione delle banche centrali sull’inflazione, definiti sbagliati, parziali, pregiudiziali. Per ora, però, la presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, tiene il punto e smentisce che la Bce abbia intenzione di rialzare i tassi d’interesse nonostante il suo ultimo vertice, per sua stessa ammissione, abbia discusso di “inflazione, inflazione, inflazione”.
Il segnale forse più negativo, tuttavia, arriva dagli Stati Uniti. Proprio le prime scelte dell’amministrazione Biden avevano acceso la speranza che Washington potesse guidare le economie occidentali a una decisa svolta mirata al rilancio degli investimenti pubblici sia nel campo infrastrutturale sia in quello sociale. Frenato dall’ala destra dei democratici, che non disdegna di flirtare con i repubblicani su questi e altri temi, il presidente ha dovuto ridimensionare le ambizioni del suo piano Build Back Better: si parla ora di 1,75 trilioni di dollari, dagli originali 3,5. “Per noi non va bene ‘fare qualcosa’”, è l’allarme lanciato da Cori Bush, una delle esponenti più in vista del movimento Black Lives Matter, oggi al Congresso in rappresentanza del Missouri: “Dobbiamo tassare i ricchi, avranno un jet personale in meno”. E in effetti nemmeno noi qui in Italia avremmo bisogno di “qualcosa”. Ma se si indebolisce anche la sponda americana, è facile prevedere che il decisionismo draghiano non potrà che rifluire nella vecchia ortodossia liberista e antisociale.