“Dobbiamo decolonizzare la nostra mentalità e raggiungere la felicità”. Questa frase storica dell’ex presidente del Burkina Faso Thomas Sankara, assassinato il 15 ottobre del 1987, si poteva leggere lo scorso anno a Milano in una targa collocata vicino una statua di ferro dell’artista senegalese Mor Talla Seck raffigurante, appunto, lo storico leader africano. L’opera d’arte è stata immediatamente rimossa. Ma, a distanza di decenni, di quest’uomo che ha sacrificato la propria vita per ideali di solidarietà e riscatto, si continua a parlare.
Dopo un rinvio di due settimane, oggi, ben trentaquattro anni dopo l’omicidio, si apre a Ouagadougou il processo ai suoi assassini. Una vicenda, la sua, paragonabile a quella del leader congolese Patrice Lumumba, assassinato sessant’anni fa con la complicità evidente degli Stati Uniti, timorosi dell’influenza dell’Unione sovietica nell’area, e del Belgio, attaccato come una ventosa alla sua ex colonia e alle sue risorse.
Un sogno infranto, il suo, come quello di tante altre esperienze rivoluzionarie. Forte della sua popolarità Sankara arrivò alla guida della nazione nell’agosto del 1983 con un colpo di Stato che estromise Jean-Baptiste Ouédraoqo. In quell’occasione cambiò il nome del Paese, che si chiamava Alto Volta, in Burkina Faso che significa “Paese degli uomini liberi”. All’età di 34 anni, il giovane presidente burkinabé iniziò la sua combattiva avventura che gli costò la vita. Sostenuto dal regime libico di Gheddafi, che cercava di accreditarsi come leader del movimento anticolonialista e antimperialista, Sankara lanciò la sua sfida insieme a colui che poi si rivelerà il suo traditore: quel Blaise Compaoré che poi lo estromise dal potere, uccidendolo insieme a dodici suoi uomini e garantendosi così la presidenza della repubblica fino al 2014, quando fu costretto alle dimissioni da una sollevazione popolare. Una scelta che non poteva essere realizzata senza il sostegno decisivo della Francia del socialista François Mitterrand e degli Stati Uniti governati allora dal repubblicano Ronald Reagan.
Insomma, le grandi potenze non potevano tollerare che un signor nessuno, per di più con pericolose idee marxiste e terzomondiste nella testa, mettesse in discussione i grandi poteri economici e politici del pianeta rifiutando gli aiuti della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale che provocavano fatalmente un aumento di quel debito estero che lui considerava “nella sua forma attuale una riconquista coloniale”.
In alternativa, il giovane leader presentò un piano molto ambizioso che prevedeva, tra i tanti punti, la lotta alla corruzione, la cancellazione dei privilegi dei militari nei riguardi della popolazione, la valorizzazione dell’economia locale in particolare quella delle piccole imprese, l’abbassamento dei prezzi dei beni di prima necessità con un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e delle lavoratrici e l’emancipazione della donna con l’abolizione della poligamia. Senza dimenticare che fu il primo, in Africa, a denunciare la tragedia legata all’Aids.
Che Sankara avesse la stessa caratura di più noti rivoluzionari lo dimostrarono il discorso alle Nazioni Unite del 4 ottobre del 1984 e, in occasione del vertice dell’Organizzazione per l’unità africana ad Addis Abeba, quello del 29 luglio del 1987, a tre mesi dal giorno della sua morte. “Non c’è salvezza per il nostro popolo – disse Sankara – se non voltiamo completamente le spalle a tutti i modelli che ciarlatani di ogni tipo hanno cercato di venderci per vent’anni. Non ci sarà salvezza per noi, né sviluppo, se non rompiamo col passato e se non diciamo no a questa logica”. Due eventi storici che ricordano l’intervento al Palazzo di vetro di Ernesto Che Guevara, allora ministro dell’industria del governo cubano, l’11 dicembre del 1964.
Non è stato facile scardinare gli ostacoli che da più parti arrivavano per non svolgere il processo. “Per lungo tempo, la giustizia del regime del signor Compaoré – scrive su Le Monde Diplomatique l’africanista francese Bruno Jaffré – ha moltiplicato le manovre per ostacolare le indagini, nonostante la campagna “Giustizia per Thomas Sankara, giustizia per l’Africa”. Contro ogni evidenza – denuncia lo studioso – il certificato di morte dell’ex presidente riporta la menzione “morte naturale” fino all’aprile 2008. Ci volle l’insurrezione dei burkinabé per sbloccare la situazione”.
Sarà il processo l’occasione per arrivare ai mandanti dell’omicidio, come auspicano i parenti degli ufficiali uccisi nel corso dell’attentato e la stessa vedova del defunto presidente? Difficile fare delle previsioni ma la verità storica ha già emesso la sua sentenza. L’apertura del processo, che si terrà a porte aperte presso la sala dei banchetti Ouaga 2000, era stata resa nota dal procuratore militare. L’annuncio è stato fatto dopo un’audizione con il presidente della transizione, Michel Kafando.
Blaise Compaoré, nei confronti del quale è stato emesso un mandato di cattura internazionale, si è nel frattempo rifugiato in Costa d’Avorio dove è stato accolto dal presidente, Alassane Ouattara, che rifiuta ogni richiesta di estradizione; mentre il generale Gilbert Diendéré, che divenne poi capo di stato maggiore, è in carcere per aver tentato a sua volta un altro golpe. Entrambi sono accusati con altri militari di attentato alla sicurezza dello Stato e complicità negli omicidi.
Nel frattempo il Paese deve fare fronte ai cambiamenti climatici, agli attacchi dei jihadisti mentre la pandemia ha aggravato la situazione economica. Non è chiaro se a sostenere Compaoré, oltre agli Stati Uniti e alla Francia, ci fossero anche Costa d’Avorio, Liberia e, paradossalmente, anche quella Libia che in precedenza aveva sostenuto la rivoluzione di Sankara. È fuori discussione il ruolo determinante e principale che giocò Parigi tanto da spingere l’attuale inquilino dell’Eliseo, Emmanuel Macron, a desecretare gli atti relativi all’assassinio dello statista. “Trent’anni dopo – scrive il giornalista francese Rémi Carayol – Sankara è più che mai un modello per i giovani. I suoi discorsi sulla questione ecologica, il ruolo delle donne, lo scandalo del debito o anche la necessità di aiutare i più poveri sono diventati dei classici tra i giovani più impegnati”.
Tuttavia manca una figura che possa dare una continuità all’esperienza sia di Sankara sia di Mandela. A differenza dell’America latina, dove sono ben presenti uomini e donne alla testa di esperienze progressiste e rivoluzionarie ed esistono tradizionalmente partiti ben strutturati simili a quelli occidentali, in Africa lo scenario è più complesso. Resta per il momento il ricordo di leader come Kwame Nkrumah, rivoluzionario ghanese, contemporaneo di Lumumba e appunto di Nelson Mandela. Senza dimenticare l’impegno anticolonialista di uomini come il presidente mozambicano Samora Machel, morto a causa di un incidente aereo dietro il quale ci sarebbe stata la mano del Sudafrica dell’apartheid, e il capo di Stato angolano Agostinho Neto. L’assenza di uomini di questa caratura rende il futuro dell’Africa, ora oggetto dell’invadenza economica della Cina, incerto. La speranza risiede proprio in quei giovani che non hanno dimenticato la lezione del presidente ribelle che osò sfidare il mondo.
Nella foto: particolare della statua di ferro raffigurante Thomas Sankara, dell’artista senegalese Mor Talla Seck