Il 16-17 ottobre a Reims si è svolta la convenzione della France Insoumise che ha dato il via alla mobilitazione dei militanti nella campagna per le presidenziali francesi che si terranno nell’aprile del 2022. Come delegato tirato a sorte (così per l’80% dei convenuti), in quanto membro del Gruppo d’azione di Roma e dell’Italia del Sud, ho potuto parteciparvi. Lo straniamento rispetto alle riunioni e alla estrema frammentazione della sinistra italiana è totale. Tra mille e duemila delegati in sala tra sabato e domenica – stile molto statunitense, interventi di massimo cinque minuti, voci impostate e discorsi limati in ogni singola battuta –, mentre scorrono video e schede sullo schermo, entusiasmo palpabile.
Bandiere con il simbolo del “phi greco” in bianco su sfondo rosso (il simbolo del partito-movimento) e bandiere nazionali. Nessuna bandiera con falce e martello, canto della Marsigliese; eppure il programma presentato è sicuramente uno dei più radicali tra quelli della sinistra europea. A seguire laboratori di discussione sui temi centrali (le urgenze sociali, democratiche, ecologiche e sanitarie) o di formazione “militante” (crowdfunding, tecnica del porta a porta, militanza digitale). La sera, mega-cena di circa mille persone, cori e brindisi (Reims è la capitale dello champagne, ma i vini serviti erano, per la verità, più modesti). La domenica seguente, Jean-Luc Mélenchon ha tenuto un discorso di stampo presidenziale dove ha illustrato programma (“L’Avvenire in comune”) e strategia (l’Unione popolare).
Il dado è tratto, la corsa di Mélenchon sarà in solitaria. Cerca di trarre profitto dagli insegnamenti della sua campagna elettorale del 2017, in cui ottenne sette milioni di voti (il 19,6% dei voti), arrivando quarto e mancando il ballottaggio per seicentomila voti. Lo schema di campagna consiste nel far diventare il voto a Mélenchon il voto utile a sinistra e tra i verdi per accedere al secondo turno. La concorrenza a destra lo fa ben sperare, anche se la sinistra si presenta, al momento, con otto candidati (tra i quali ben tre trotzkisti!).
Gli insegnamenti della campagna del 2017
Gli inizi della campagna del 2017 non furono affatto facili. Approfittando della delusione prodotta dal quinquennio di Hollande e del discredito di tutta la dirigenza socialista (inclusa la sua ala sinistra, Hamon in primis), annunciò la sua candidatura fin dal febbraio del 2016. Nei mesi successivi le piazze si mobilitarono contro la legge El Khomri sul mercato del lavoro; partì la Nuit debout (“Notte in piedi”), il movimento degli intellettuali e dei giovani diplomati e laureati precari che da Place de la République a Parigi dilagò in tutto il paese. E nei sondaggi la sua candidatura passò dall’8,5% iniziale al 13%.
Nel frattempo nel Partito socialista si litigava. Mélenchon provò a sedurre i ceti popolari attratti dal Front National o dall’astensionismo, e cercò di impostare il discorso sugli immigrati sulla lotta alle cause dell’immigrazione pur schierandosi a favore dei sans-papiers (gli immigrati irregolari), parlò di fachés pas fachos (arrabbiati non fascisti). L’elettorato popolare rimase però propenso ad astenersi o a votare Le Pen, e le sue percentuali, fino a dicembre 2016, ristagnarono sempre intorno al 13%.
Si rivolse anche ai simpatizzanti degli ecologisti, citò “l’eco-umanesimo” (termine che preferisce a quello di “eco-socialismo”, meno comprensibile e ambiguo per il grande pubblico) e si pronunciò con nettezza per l’uscita dal nucleare (opzione niente affatto scontata in Francia neanche per molte forze di sinistra). Un quarto degli elettori verdi si disse all’epoca disponibile a votarlo. Ma, da gennaio a marzo 2017, Mélenchon regredì nei sondaggi sotto il 10%, mentre Hamon, scelto come candidato dal Partito socialista, salì al 18%. Nel febbraio 2017 i negoziati tra i due fallirono per le divergenze sull’Unione europea.
La France Insoumise reagì indicendo la marcia per la Sesta Repubblica che avrebbe dovuto mettere fine al presidenzialismo semi-monarchico della Quinta. Mélenchon moltiplicò le presenze televisive rivelandosi un polemista imbattibile, e organizzò un suo comizio in contemporanea in più città con la tecnica dell’ologramma, che fece scalpore. A inizio aprile 2017 era al 17% e Hamon al 9%. Il voto al leader della France Insoumise diventò così il voto utile per l’elettorato di sinistra ed ecologista. Ma negli ultimi quindici giorni della campagna elettorale finì per rappresentare il nemico da battere per quasi tutti i media, e per poco non riuscì a raggiungere la percentuale necessaria per accedere al ballottaggio.
Programma e strategia dell’Unione popolare
Un programma radicale, dicevamo. La sua redazione è il risultato di un percorso molto partecipato nel corso degli ultimi anni; si tratta di una riscrittura e aggiornamento del programma del 2017 il cui testo è stato sottoposto al vaglio dei militanti, di esperti, di sindacati e associazioni, di Ong e infine votato sulla piattaforma del movimento.
L’idea di fondo è quella di dimostrare che il movimento è pronto a governare la Francia. Per esempio, si vuole sostituire il ministero dell’Agricoltura con quello dell’Alimentazione per indicare che occorre uscire dalla logica produttivistica. Oggi si produce del granturco per nutrire dei polli all’altro capo del pianeta, ma non si coltivano carote per le mense aziendali o scolastiche dietro l’angolo; inoltre, per mangiare “bio”, occorrono dei buoni stipendi. Dunque giustizia sociale e obiettivi ecologisti: tutto si tiene. Occorrono cinquemila operai specializzati per smantellare le centrali nucleari e trecentomila contadini per poter fare dell’agricoltura biologica su larga scala. Dove acquisiranno la formazione necessaria? Ci vuole un adeguato insegnamento professionale e investimenti nella ricerca, inclusa quella di base. La Francia ha cinquantasei reattori nucleari ma quasi nessuno fa ricerca su come ridurre la radioattività delle scorie. E non si può finanziare solo quella applicata: “Non si è trovata l’elettricità migliorando le candele!”.
Tre i settori fondamentali nei quali investire: il mare, lo spazio e il digitale, le tre direzioni del futuro. Una delle principali proposte è quella della regola verde da inserire in Costituzione: non si deve prelevare dalla natura più di quanto essa è in misura di rigenerare. E poi: ottenere il 100% dell’energia da fonti rinnovabili chiudendo le centrali nucleari e opponendosi al piano di Macron di diffusione dei piccoli reattori; gestire la riconversione ecologica tramite la pianificazione (parola tabù!); e la giustizia sociale insieme alla riconversione ecologica, ossia riduzione dell’orario di lavoro, aumento del salario minimo a 1.400 euro netti mensili, pubblica amministrazione come garante in ultima istanza del pieno impiego per tutti per affrontare i bisogni sociali non soddisfatti, requisizione degli alloggi sfitti, e così via.
Più che sulle alleanze politiche si puntano i riflettori sui due terzi di francesi che alle ultime elezioni amministrative non hanno votato: abitanti delle periferie e delle zone rurali e delle città di provincia, perché i ricchi hanno votato, mentre le classi popolari e i giovani si sono astenuti. L’erosione della rappresentanza democratica fa il gioco dell’oligarchia che gestisce la Quinta Repubblica.
La scommessa è tutta qui: dieci milioni di francesi non sono iscritti o non sono correttamente iscritti nelle liste elettorali e molti altri non ritengono utile andare a votare. È stata così lanciata una campagna di contatti porta a porta, secondo la modalità sperimentata nella campagna elettorale di Obama per bussare a un milione di case e iscrivere un milione di persone nelle liste elettorali. Sono previsti weekend formativi in una decina di città per preparare i militanti alla bisogna. Insomma il successo della candidatura dipende dal tasso di partecipazione al voto.
La direzione della campagna sarà affidata a un parlamento dell’Unione popolare costituito, oltre che da dirigenti della France Insoumise, da personalità espressione di sindacati, associazioni, Ong e intellettuali che vorranno aderire al progetto.
Un altro aspetto di questa strategia consiste nel contrastare l’islamofobia che sembra permeare quasi tutti i settori politici, anche rischiando di farsi incollare addosso l’etichetta di “islamo-gauchista”. Nei discorsi del leader vengono spesso richiamate le otto guerre di religione che insanguinarono la Francia tra il 1562 e il 1598, opponendo cattolici e protestanti. Ci sono sei milioni di musulmani francesi, non seconda o terza generazione di immigrati, ma “francesi”, ribadisce.
In sintesi, una strategia che cerca di mobilitare e mettere insieme i piccoli borghesi declassati della provincia (i gilets jaunes), i banlieusards, figli o nipoti di immigrati, e i giovani precari usciti dalle università. Una scommessa rischiosa, ma al cui tentativo dovrebbe guardare con interesse tutta la sinistra europea, e in particolare quella italiana cosiddetta radicale, che difetta di autonomia culturale, politica e di una strategia vincente, com’è dimostrato anche dai risultati delle ultime elezioni amministrative.