“Approccio dittatoriale”. Sono le accurate parole che il presidente egiziano al-Sisi ha scelto per definire la visione di quei Paesi che gli chiedono di rispettare i diritti umani, aggiungendo: “Non abbiamo bisogno che nessuno ci dica che i nostri standard sui diritti umani comportano violazioni. Sono responsabile di cento milioni di anime, non è una cosa facile”.
Il rais egiziano ha scelto la platea sensibile del gruppo di Visegrad, riunito nella Budapest di Orbán, per esprimersi così. È difficile pensare che voglia aderire al progetto di democrazia illiberale e cristiana del premier ungherese, o al culto della muraglia dei leader polacchi sostenuti da tanta parte del loro episcopato. Al-Sisi infatti è musulmano. Ma soprattutto è egiziano, e così esprimendosi sembra dirci che il modello cinese prescelto in Arabia Saudita per modernizzare l’economia senza allargare la cinghia dei diritti è condiviso al Cairo. Ma loro sono alleati degli Stati Uniti, contro la Cina.
Il problema dunque si complica: la dottrina Biden dice che, da una parte, c’è il mondo democratico, chiamato a confrontarsi con l’emergente colosso dispotico dall’altra, cioè con la Cina, la cui influenza globale va contrastata. Ma se gli alleati di Biden si muovono come la Cina, seguendo il loro modello, il rischio è evidente: la differenza tra i due dov’è?
Queste ultime ore sono state esemplari perché hanno posto con tutta chiarezza l’analogia degli opposti. Il G-20 sull’Afghanistan si è chiuso, proprio nelle ore in cui parlava al-Sisi, con il rinnovo della richiesta americana ai talebani di “fatti sul rispetto dei diritti umani” prima di erogare aiuti di Stato.
Pechino invece si limita a chiedere a Kabul lotta al terrorismo internazionale che, tradotto dal cinese, vuol dire “evitare ogni solidarietà o ogni aiuto agli uiguri dello Xinjiang”. Nessuna richiesta sui diritti umani è stata presentata da Pechino a Kabul: sembra la conferma di quanto dice Biden; ma se mettere tra parentesi i diritti umani vale al Cairo, Pechino può ben dire che vale anche a Kabul. La contemporaneità delle dichiarazioni di al-Sisi con il G-20 sull’Afghanistan rende tutto evidente.
Ma non tutto è qui. Nelle stesse ore, infatti, esprimendosi in diretta sul canale dell’autorevole Carnegie Institute, il responsabile del dossier iraniano alla Casa Bianca, Robert Malley, ha detto che Washington vuole un negoziato diretto con Teheran. Sul tavolo, ha detto, c’è la rimozione di tutte le sanzioni economiche statunitensi in cambio del pieno ritorno al trattato sul nucleare. L’Iran veleggia verso una forte alleanza con la Cina, forse è anche per questo che, per allontanarlo da quella potenziale alleata, non ha posto come condizione alcuna forma di rispetto della volontà popolare o dei diritti umani, proprio come fa Pechino con Kabul. Comprensibile, ma il discrimine tra il fronte democratico e l’altro non è facile da vedersi.
Così è importante tornare al presidente egiziano, al-Sisi, e alla sua esternazione a Budapest. I principali quotidiani egiziani lo hanno citato in prima pagina: “Bisogna capire cosa sta succedendo in Egitto”. Oppure: “L’Egitto rispetta il proprio popolo e non si sottomette ad alcun diktat”. La trasformazione del concetto chiave di al-Sisi a uso interno è evidente. Non si dice infatti che gli egiziani non possono permettersi il lusso dei diritti umani, dice che l’Egitto non accetta diktat stranieri. E cioè?
Qui è molto importante tornare al famoso video che l’intelligence egiziana fece apparire sul web ad aprile di quest’anno, quando la procura di Roma decise di aprire il processo a carico di quattro agenti dei servizi egiziani accusati del suo sequestro, ora messo a dormire. Quel video ricostruiva l’arrivo di Regeni in Egitto, sottolineando con enorme enfasi che, in precedenza, era stato in “Israele”. La parola Israele viene pronunciata come si dice “lupo”, leggendo la favola di Cappuccetto Rosso. Poi, ricordati i suoi soggiorni americani, lo ritraeva sempre aggrappato a una tazza di caffè americano, sua vera passione.
Non serve uno studio psicoanalitico per capirne la finalità: Regeni era una spia, parte di un complotto contro l’Egitto! L’opinione pubblica doveva convincersi di questo. Questo “diritto umano” – il diritto a vedere sempre e solo complotti – è uno dei pochi che uniscono Cina, Egitto, Afghanistan, Iran (e molti altri). È il diritto che nasce dalla morte della politica e che panarabismo e panislamismo hanno diffuso per decenni nel loro mondo, complici tanti errori occidentali, come quello di seguitare a sostenere al-Sisi nel nome di una lotta al terrorismo che, lui come gli altri despoti, alimentano per poi sentirsi legittimati a governare per combatterlo. È difficile immaginare che, se i giornali avessero intitolato “In Egitto non abbiamo tempo da perdere dietro i diritti umani”, i lettori avrebbero apprezzato. Questo al-Sisi lo sa benissimo, e anche gli uomini dei suoi apparati.
Se Biden vuole convincerci che la Cina è un pericolo, non ha bisogno di scomodare i diritti umani e la democrazia. Ma se volesse convincerci a dare vita a una coalizione per la democrazia dovrebbe guardarsi da certi amici, vecchi e nuovi.