Nel rispondere in tv in maniera peraltro triviale a Jasmine Cristallo (ma la nostra Sardina ha saputo tenergli testa), Carlo Calenda ha tirato in ballo un presunto “liberalismo sociale” di Carlo Rosselli e, prima ancora, di John Stuart Mill come antecedenti politico-culturali del gruppo da lui fondato, denominato Azione. È appena il caso di precisare che una cosa era il “socialismo liberale” di Rosselli – o il “liberalsocialismo” di Guido Calogero –, un’altra il pensiero liberaldemocratico di Mill, per il quale soltanto potrebbe valere la definizione di “liberalismo sociale”. Quelli di Rosselli e Calogero erano socialismi veri e propri – a tinte non marxiste ma soprattutto fortemente antistaliniste –, e per comprenderli appieno (come ha più volte sottolineato il direttore del “Ponte” Marcello Rossi) sarebbe opportuno parlare di socialismo libertario.
Il discrimine tra le due tradizioni, malamente messe insieme da Calenda (per la verità anche da altri negli scorsi decenni), è dato dall’anticapitalismo. Rosselli e Calogero non furono soltanto degli antifascisti, ma – soprattutto il primo – dei militanti che avevano perfettamente compreso il ruolo svolto dal fascismo nella salvaguardia dei privilegi e degli interessi borghesi, intendendo così abbattere il regime fascista non meno che superare il capitalismo.
Il problema del Partito d’azione (in sostanza la prosecuzione del movimento rosselliano di Giustizia e libertà) fu che, dopo avere giocato un ruolo di primo piano nella lotta antifascista e nella Resistenza, alle elezioni per la Costituente del 1946 prese l’1,4% dei voti. Le cerchie intellettuali possono svolgere un compito, in certi momenti, di avanguardia e di supplenza rispetto ai grandi partiti, perfino di militanza attiva in una lotta armata, ma – privi come sono di rapporti di massa consolidati – alla fin fine non reggono. Il Partito comunista e il Partito socialista, considerati insieme, raggiunsero nelle stesse elezioni il 40%. Di qui la crisi del Partito d’azione, che si sciolse e vide una sua parte o ritirarsi dalla politica o, come Ugo La Malfa, approdare al Partito repubblicano e divenirne poi il segretario, mentre una parte più consistente (i Riccardo Lombardi e i Vittorio Foa) confluiva nel Partito socialista.
Ecco, se a qualcosa e a qualcuno potrebbe essere avvicinato Calenda, è al moderatismo di un La Malfa, che fu a lungo punto di riferimento della borghesia cosiddetta illuminata (anche Gianni Agnelli fu un suo sostenitore) che, appoggiando la sua proposta di una “politica dei redditi”, intendeva porre un freno alle rivendicazioni operaie. Peccato che – durante il caso Moro, quando era già forse alquanto rimbambito – La Malfa se ne uscisse con l’idea della pena di morte ai terroristi. Se non fosse per questo non piccolo neo, lo si potrebbe ricordare come un coerente democratico.
Persona seria, comunque, La Malfa. Calenda è della stessa pasta? Qualche anno fa si fece eleggere al parlamento europeo nelle liste del Pd, giurando che mai e poi mai avrebbe abbandonato questo partito una volta eletto. Detto fatto, qualche settimana dopo vediamo Calenda, contro Renzi e la sua (tardiva) conversione a un governo con i 5 Stelle, allontanarsi dal Pd e fondare il proprio partitino personale. Un’operazione in cui – incredibilmente ma non troppo – sarà seguito dallo stesso Renzi. I loro due destini appaiono quindi del tutto accomunabili: se uno sfrutta l’occasione, anche l’altro sa sfruttarla, con tempestivo opportunismo. Calenda resta però un oppositore, a quanto sembra, di un’alleanza di centrosinistra con i 5 Stelle, mentre Renzi, appena un po’ più possibilista, pare avercela soprattutto con Conte.
L’uno e l’altro – con maggiore astuzia politica Renzi, con una specie di monocorde e moralistico “richiamo all’ordine” Calenda – sono esempi delle mille trasformazioni possibili del centrismo italico – di cui, imbattibile archetipo, resta però l’immarcescibile Clemente Mastella. Ambedue, Renzi e Calenda, sarebbero pronti a trasmigrare “dall’altra parte”, ovunque questa si trovi, pur d’inseguire i loro perscrutabilissimi disegni, come per esempio quello di una sospirata rielezione. Infine, due personaggi della “commedia all’italiana”, di cui proprio il nonno di Calenda, Luigi Comencini, fu tra i maestri.