Enrico Letta ha definito l’episodio “gravissimo”, ha convocato i ministri del Partito democratico per discuterne e ha accusato la Lega di voler fare “saltare il banco” della maggioranza parlamentare. Ma l’assenza dei rappresentanti leghisti dal Consiglio dei ministri che ha dato il via libera al testo del disegno di legge delega sulla riforma fiscale, è stata già ridimensionata il giorno dopo, quando Matteo Salvini si è presentato davanti a cronisti e telecamere denunciando una “patrimoniale nascosta” e sventolando i fogli con le norme incriminate. “Basta togliere questi due commi dalla delega fiscale e facciamo un buon servizio al Paese, non alla Lega”, ha spiegato.
Ora, la drammatizzazione deve essere sembrata al Pd una brillante mossa per animare il dibattito politico in vista dei ballottaggi e scavare nelle contraddizioni interne alla destra. Ma immaginare che la Lega e i suoi referenti nel mondo delle imprese, delle professioni e della rendita, vogliano una crisi del governo Draghi per due commi di una delega rappresenta uno sforzo eccessivo di creatività.
Il progetto presentato dal ministro dell’Economia Daniele Franco deve in qualche misura rispettare le vaghe indicazioni del documento prodotto dalle commissioni Finanze di Camera e Senato al termine dell’indagine conoscitiva sulla riforma del fisco (ne abbiamo parlato qui). Un documento segnato da una confusa impostazione tardo-reaganiana, definita “antitasse” dall’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco.
Il governo oggi promette di ridurre la pressione su imprese, rendite finanziarie e redditi medi (l’aliquota Irpef per chi guadagna da 28 a 55mila euro), oltre ai consueti interventi di riordino, razionalizzazione, semplificazione che non mancano mai. Di quali commi parla allora Salvini? Dei punti a e b del comma 2 dell’articolo 7 del disegno di legge. Il primo parla di “attribuire a ciascuna unità immobiliare, oltre alla rendita catastale determinata secondo la normativa attualmente vigente, anche il relativo valore patrimoniale e una rendita attualizzata in base, ove possibile, ai valori normali espressi dal mercato”; il secondo di “prevedere meccanismi di adeguamento periodico dei valori patrimoniali e delle rendite delle unità immobiliari urbane, in relazione alla modificazione delle condizioni del mercato di riferimento e comunque non al di sopra del valore di mercato”. Se, su un disegno di legge di dieci articoli, il dissenso è su due commi dell’articolo 7, a occhio la Lega approva nove articoli e mezzo su dieci, prima ancora che la riforma approdi in parlamento.
Nel merito, non è un segreto che il catasto sia fermo a una fotografia della proprietà urbana largamente inattuale: ci sono immobili di pregio, nei centri storici metropolitani, la cui rendita è valutata meno rispetto a quella delle case dei ceti medio-bassi nei quartieri periferici. Salvini naturalmente rimescola un po’ le carte, quando ricorda che “otto italiani su dieci sono proprietari della casa in cui vivono”, dal momento che quegli otto su dieci non pagano l’Imu, a parte chi abita in abitazioni di lusso, ville e castelli.
La revisione e l’adeguamento del valore catastale colpirebbero quindi quasi esclusivamente la rendita immobiliare. Ma la trincea tracciata dal leader leghista è così labile che, per attenuarne la minaccia, è bastato che Mario Draghi gli concedesse una dichiarazione per precisare che si tratta di una operazione “di trasparenza” per evitare di “calcolare le tasse sulla base di numeri che non hanno senso”; e che “le persone continueranno a pagare quanto pagano oggi”, mentre “di eventuali decisioni si parlerà dal 2026”, anche se “è evidente come ci siano tante persone che pagano troppo e tante che pagano meno di quanto dovuto”. Replica, affidata a un’anonima velina di “fonti” della Lega: “Bene Draghi contro patrimoniale e nuove tasse sulla casa, adesso il parlamento in aula tolga ogni accenno alla riforma del catasto che preluda a nuove tasse sulla casa”. Salvini tiene il punto, ma come preludio di una molto ipotetica crisi di governo è un po’ poco.
Naturalmente Salvini ha le sue preoccupazioni di consenso popolare, dopo il non brillantissimo risultato delle elezioni comunali (che comunque non andrebbe enfatizzato, visto che, come hanno evidenziato le prime analisi, le urne hanno portato la Lega ad accrescere il numero di sindaci eletti e in molti casi anche le percentuali e i voti assoluti rispetto alle precedenti amministrative). E soprattutto deve far fronte alla competizione di Giorgia Meloni per il primato nel centrodestra e allo scontro interno con l’ala tradizionale della Lega, rappresentata dal ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti, il quale – non è un segreto – è dichiaratamente draghiano e personalmente, non da oggi, più vicino di Letta e Renzi al presidente del Consiglio.
La “ribellione” del leader leghista ha quindi aspetti puramente tattici e comunicativi, fin troppo visibili a occhio nudo. In vista del voto per il Quirinale, non c’è da attendersi un abbassamento dei toni, in generale, da parte sua: almeno se non si sentirà sicuro di aver ripreso il controllo del pacchetto di voti della Lega e di poter dare le carte con gli alleati tradizionali. Ma per meglio comprendere la temperatura della situazione, è il caso di ispirarsi alla reazione serafica di Draghi: che mai come in questa occasione è parso convinto di poter andare avanti senza scossoni e ha serenamente fatto approvare la delega fiscale.