Due, quattro, sei, otto, dieci al giorno. Il numero dei morti sul lavoro in Italia cresce in progressione lineare. Sono settecento dall’inizio dell’anno quelli ufficialmente accertati. Mario Draghi parla di “strage”, mentre si moltiplicano generici appelli a una maggiore sicurezza sul posto di lavoro. Da ogni parte politica giungono le consuete frasi di circostanza; in molti piangono calde lacrime di coccodrillo…
L’inasprimento dei controlli e delle pene legate alla violazione delle norme sulla sicurezza unanimemente (e tardivamente) auspicato appare però poco più di un pannicello caldo nella situazione in cui ci si trova. Rafforzare le misure antinfortunistiche è certo una necessità impellente, ma di per sé la misura non è sufficiente. Abbiamo visto come alcuni infortuni mortali siano avvenuti perché le aziende avevano disattivato le protezioni esistenti nei macchinari per aumentare la produzione. È invalso, nell’uso, un sistema perverso per cui le protezioni vengono riattivate quando si sa che stanno per arrivare gli ispettori del lavoro.
La situazione pulviscolare della piccola e piccolissima azienda non aiuta. La piccola impresa, che costituisce una grossa fetta del tessuto produttivo italiano, era già da tempo nel mirino dell’Inail perché presentava il tasso infortunistico più elevato. Si stima che, nel 2020, circa otto aziende su dieci non fossero in regola sotto il profilo della prevenzione. Inoltre gli enti che dovrebbero eseguire i controlli sono drammaticamente sotto organico: l’Ispettorato nazionale ha 4.500 dipendenti, a fronte di un organico previsto di 6.500. I dipartimenti di prevenzione delle Asl hanno duemila dipendenti, contro i cinquemila che erano nel 2009; la stessa Inail ha visto nel giro di cinque anni gli ispettori diminuire da 350 a 246.
Se si considera che proprio sulla piccola impresa si punta per il rilancio dell’economia è chiaro che, in queste condizioni, la ripresa rischia di essere costruita su un lastrico di cadaveri operai. Ma per capire il perché dell’incremento degli incidenti, e andare alla radice del fenomeno della crescita delle morti sul lavoro, è necessario guardare oltre i confini nazionali.
Il 23 settembre scorso si è concluso a Ginevra il ventesimo convegno internazionale su Health and Safety (“Salute e sicurezza”), organizzato dalla Organizzazione internazionale del lavoro, e si è chiuso con un comunicato finale che è un appello ai governi perché cessi lo sterminio operaio. Al centro del convegno, infatti, c’era la questione dell’incremento delle morti sul lavoro durante la pandemia. I dati presentati dalla Organizzazione sono impressionanti: a partire dal 2016, nel mondo, c’è stata una continua crescita degli infortuni sul lavoro fino a giungere a quasi quattrocentomila annui ufficialmente rilevati, di cui, in una percentuale consistente, fatali. Ma – quel che più colpisce – è l’incremento vertiginoso che questi dati, già pesantissimi, hanno ricevuto nell’ultimo anno e mezzo di pandemia.
La spiegazione fornita dalla Organizzazione internazionale del lavoro è che il Covid-19 ha avuto, tra i suoi effetti, una ristrutturazione pesante del mondo della produzione. Non solo molte ditte hanno ristrutturato, licenziando e intensificando i ritmi di lavoro, aumentando in questo modo i rischi di infortunio legati alla fatica, ma alcuni lavori – in particolare quelli precari e interinali – si sono andati rarefacendo, dando così luogo a una concorrenza serrata per ottenerli: concorrenza che si spinge fino ad accettare condizioni di lavoro estreme e prive di garanzie. E quelle riservate ai precari sono spesso le mansioni peggiori, le più rischiose, per le quali spesso non è richiesta alcuna formazione adeguata.
I report presentati nel corso del convegno hanno anche evidenziato come l’incremento degli incidenti mortali sia più marcato nei paesi “arretrati”, in cui la tecnologia obsoleta, la mancanza di controlli sulle macchine e l’assenza di tutele sindacali creano tutti i presupposti per simili eventi. In sostanza l’Organizzazione ci dice che due sono le componenti dell’aumento delle morti: da una parte il prolungamento della giornata lavorativa in ambienti tecnologicamente non adeguati, dall’altra la situazione in cui si è venuto a trovare il mercato del lavoro durante la pandemia. E in particolare sono maggiormente interessate le economie di quei paesi cui spetta, a livello globale, il ruolo di fornitori di lavoro di bassa qualità.
Comincia a diventare chiara la situazione italiana, in cui sempre più spesso si è deciso, negli ultimi anni, di sacrificare la sicurezza alla competitività, fino alla brusca accelerazione imposta dalla pandemia. Il sistema dei subappalti, l’intensificazione dei ritmi di lavoro, la precarizzazione, sono tutti anelli che costruiscono la catena del valore di un sistema industriale in cui convivono, e a volte si mescolano confusamente, tecnologie avanzate e macchinari antidiluviani, concezioni di avanguardia e un’arretratezza “manchesteriana”, che scarica i rischi su chi è obbligato a vendere la propria forza-lavoro per vivere.
Questi i motivi per cui non basta invocare più controlli e pene draconiane: un sistema di controllo più efficace è indubbiamente auspicabile, ma, anche nel caso in cui diventasse realtà, non potrà certo fermare le morti se non mutano alcuni tratti di fondo del nostro apparato produttivo. Scriveva anni fa un sociologo come Luciano Gallino: “Le imprese, che per risparmiare qualche migliaio di dollari o di euro non predispongono misure adeguate per prevenire incidenti o gravi patologie a lunga genesi, rappresentano in modo singolarmente efficace la lotta di classe sui luoghi di lavoro”. Come dire che i dati delle morti sul lavoro, letti in profondità, sono un chiaro indicatore dell’andamento dei rapporti di classe. Non sono allora gli interventi “tecnici” quelli che possono porre fine alla strage, ma solo consapevoli scelte politiche, capaci di entrare nel merito dei processi produttivi e in grado di modificarli.