L’Italia è prima in Europa per incendi: nel 2021 nuovo record negativo. Dal gennaio scorso a oggi sono andati in fumo ben 1.552,72 chilometri quadrati di boschi, foreste e campagne. È come se il fuoco avesse distrutto la superficie totale di Roma e Parma, oppure sette volte l’Isola d’Elba, o quasi un decimo dell’estensione di tutti i parchi nazionali italiani. Battuto il precedente anno nero dei roghi in Italia, il 2017, quando andarono in fiamme oltre 1.418 kmq: sono i dati aggiornati dell’Effis, il sistema europeo di informazione sugli incendi boschivi della Commissione europea, diffusi lo scorso 15 settembre. Una escalation di fuoco che, secondo le stime di Coldiretti, costa all’Italia circa un miliardo di euro fra opere di spegnimento, bonifica e ricostruzione.
Un vero disastro davanti al quale il governo Draghi non può chiudere gli occhi, ma l’unica ricetta che l’immediatezza suggerisce è quella del panpenalismo. Dopo i roghi che hanno devastato interi territori e provocato vittime e danni all’ambiente e all’agricoltura, e dopo che il 26 agosto è stato proclamato lo stato d’emergenza per le quattro regioni maggiormente colpite – Calabria, Molise, Sardegna e Sicilia –, il decreto antincendio ora all’esame del Senato inasprisce infatti le pene sia amministrative sia penali per chi appicca il fuoco in modo doloso, con l’obiettivo “di rafforzare le azioni di prevenzione e migliorare le capacità di lotta attiva agli incendi”; particolarmente dure le condanne – come ha spiegato una nota del Consiglio dei ministri – se l’incendiario è anche colui che avrebbe invece il compito di tutelare il territorio (viene introdotta una specifica aggravante), mentre vengono colpiti gli interessi degli autori degli illeciti, per incentivare la collaborazione con le indagini e favorire condotte volte alla riparazione del danno causato. Una condanna per incendio doloso non inferiore a due anni comporta, inoltre, per il dipendente pubblico l’estinzione del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione e l’interdizione dalla possibilità di prestare servizi nell’ambito della lotta agli incendi. Come già avviene per il ravvedimento operoso previsto per i reati ambientali, si introduce un’attenuante per chi, prima dell’inizio del processo, provveda alla messa in sicurezza e, ove possibile, al ripristino dei luoghi, salvo che a provocare l’incendio doloso sia chi prestava servizio nell’ambito della prevenzione e della lotta attiva contro gli incendi.
Tutto giusto. Va bene se si colpiscono duramente questi atti barbarici, ma manca la sanzione più importante: sui terreni dove viene appiccato un incendio non si deve mai più ricostruire – ora c’è una interdizione per pochi anni, niente per gli interessi degli speculatori edilizi. Altrimenti, di incendio in incendio, si finisce con il trasformare, per esempio, la meravigliosa via del Mare che dalla Capitale porta a Ostia in una zona di orride costruzioni selvagge.
Oltre all’inasprimento delle sanzioni, il decreto prevede poi il potere sostitutivo delle Regioni nel caso in cui i Comuni non provvedano ad aggiornare nei tempi previsti il catasto dei terreni incendiati – spesso i Comuni non lo fanno per inerzia o per connivenze di interessi. Inoltre, è affidata alla Protezione civile la redazione di un Piano nazionale triennale di aggiornamento tecnologico delle azioni di prevenzione e lotta attiva agli incendi, con lo stanziamento di cento milioni nel triennio 2021-2023 in favore degli enti territoriali: in pratica viene ridisegnata la governance della prevenzione, con una iniezione di risorse finanziarie orientate massicciamente verso soluzioni strumentali e tecnologiche, con tutta probabilità anche a favore dell’industria nazionale.
Il ministero dell’Interno e quello della Difesa sono autorizzati, già nel 2021, all’acquisizione di mezzi aerei, mezzi terrestri, attrezzature e strumentazioni utili alla lotta attiva, ma sono già disponibili cento milioni nel triennio 2021-2023 in favore degli enti territoriali impegnati nella lotta attiva agli incendi boschivi.
Bene, no? Naturalmente va bene se ci sono risorse per contrastare l’abbandono di attività di cura del bosco, prevedere postazioni di atterraggio dei mezzi di soccorso, realizzare infrastrutture (per esempio vasche di rifornimento idrico utili ad accelerare gli interventi di spegnimento degli incendi), predisporre vie di accesso e tracciati spartifuoco e manutenere le aree periurbane. Ma, ammesso e non concesso che tutti questi interventi di competenza regionale possano essere efficaci in tempi storici e non geologici, possibile che nessuno trovi nulla da dire sul disastro dell’azzeramento del corpo Forestale dello Stato? Solo nel 2011 la Corte dei conti suggeriva di accentrare nella Forestale tutte le funzioni disperse, vista la competenza. La riforma Madia ha percorso invece la direzione opposta.
Non è che si voglia guardare al passato o si rifiuti un assetto nuovo delle cose. Il punto è che l’agente forestale era colui che, conoscendo il territorio in ogni sua parte, sapeva introdursi nel bosco e sottrarre ossigeno al fuoco: perché per spegnere gli incendi, insegnano tutti gli ex forestali, come l’ex sovrintendente capo della Forestale, Ezio Di Cintio, serve un lavoro diretto sul terreno, a contatto con il fronte del fuoco in foresta. Non si ottiene nulla solo con le grandi operazioni dall’alto, bisogna aggredire i piccoli fuochi che restano accesi anche nel suolo e continuano a bruciare senza la dovuta, indispensabile e defatigante azione di bonifica, che nell’intervento emergenziale e dai tempi contingentati dei vigili del fuoco si tende a dimenticare – per questo gli incendi, che naturalmente ci sono sempre stati, ora durano così tanti giorni.
Oggi, dopo la riforma Renzi-Madia, sostenuta a suo tempo anche da alcune associazioni ambientaliste e che di certo non ha fatto risparmiare soldi allo Stato, non esiste più la specifica professionalità dell’agente Forestale, le cui competenze tecniche e puntualmente orografiche, prima gestite da un unico apparato armonioso, ora sono state divise e assegnate alla gestione dei vigili del fuoco e dell’Arma dei carabinieri.
Lo spacchettamento e la loro dispersione in amministrazioni diverse, è il “male assoluto”, la causa dei fatti di cronaca che caratterizzano le estati a partire dal 2017 (la prima estate senza il corpo Forestale dello Stato). Con la riforma i vigili del fuoco si occupano di gestione e lotta attiva, i carabinieri di prevenzione e repressione. Sulla carta sembra un piano perfetto, nella realtà operativa questa spartizione non funziona perché privata dell’unicum culturale e conoscitivo del fenomeno. Né la Protezione civile potrà mai sostituire sul terreno la presenza capillare e immediata della Forestale soppressa. È storicamente impossibile negare gli eventi catastrofici anche prima di quella data, ma è altrettanto onesto ammettere che il fenomeno dei “megaincendi” si verifica ormai con sempre maggior frequenza negli ultimi cinque anni, complice l’ormai indiscutibile fenomeno del cambiamento climatico che, però, scientificamente costituisce un fattore predisponente, non una causa.
Con le nuove norme al vaglio del Senato la Protezione civile dovrà stilare, con cadenza triennale, il Piano nazionale per il rafforzamento delle risorse umane, tecnologiche, aeree e terrestri necessarie per una più adeguata prevenzione e lotta attiva contro gli incendi boschivi, documento che andrà a integrare la consueta pianificazione regionale. Sempre la Protezione civile potrà valutare anche l’uso di strumenti tecnologici e satellitari innovativi per integrare i sistemi previsionali, di sorveglianza, monitoraggio e rilevamento dell’ambiente; mezzi aerei ad ala fissa, rotante o a pilotaggio remoto; mezzi terrestri; formazione. Tanta carne al fuoco ma manca il tassello vincente, a stare alle valutazioni di chi ha spento incendi per anni, cioè l’agente forestale.