L’8 settembre scorso la commissione Giustizia della Camera ha approvato il testo unificato sulla cannabis, elaborato dal relatore Mario Perantoni (5 Stelle) a partire da proposte diverse, e per molti aspetti opposte, depositate dalla Lega (che successivamente però si è dissociata e ha chiesto un percorso separato per il suo progetto di legge), dai 5 Stelle e da +Europa. In teoria un testo, che nasce nell’ambito di una maggioranza parlamentare così ampia, potrebbe davvero rappresentare una svolta su un tema che, pur essendo storicamente controverso, può vantare ora la spinta poderosa (con centinaia di migliaia di adesioni annunciate dai promotori in poche ore) della raccolta di firme sul referendum abrogativo delle sanzioni penali e amministrative per chi coltiva e consuma cannabis.
Le cose però non sono così semplici. La compattezza mostrata dalla maggioranza rispetto a ogni iniziativa che porta il sigillo di Mario Draghi (in qualche caso obtorto collo, si veda il sofferto sì della Lega al green pass e l’altrettanto sofferta – almeno si spera – adesione di altri ai provvedimenti filoconfindustriali più radicali, come la fine del blocco dei licenziamenti) viene meno, in genere, sulle questioni che riguardano la vita sociale e i diritti, com’è il caso dell’ultradecennale legislazione proibizionistica sulle droghe. Non a caso, il voto in commissione ha visto il ricompattamento del centrodestra: Lega, Forza Italia (con la prevedibile eccezione dell’ex radicale Elio Vito), Coraggio Italia e Fratelli d’Italia schierati per il no, nonostante una parte delle norme proposte siano appunto di derivazione leghista e riprendano la classica impostazione panpenalistica: se c’è un qualsiasi problema sociale, la risposta è la galera. La sintesi che avrebbe dovuto essere di maggioranza, quindi, è passata solo con i voti di 5 Stelle, Pd e Liberi e uguali. Astenuta Italia viva, forza di collocazione fluttuante, in era Draghi, fra i due schieramenti tradizionali del bipolarismo all’italiana. Il testo, in sostanza, anche se dovesse superare l’approvazione della Camera, al momento non disporrebbe di una maggioranza politica al Senato.
In realtà, il presunto centrosinistra del futuro – che ha rallentato anche sul disegno di legge Zan al Senato, facendosi sfottere da Fratelli d’Italia, che ha chiesto ripetutamente di calendarizzare il provvedimento a palazzo Madama (“Non era urgente?”, ha commentato Ignazio La Russa dopo il nuovo niet della maggioranza in conferenza dei capigruppo) – non avrà probabilmente un sostegno troppo deciso nemmeno alla Camera. Basta leggere la voluta minimizzazione di Giuseppe Conte: “C’è un problema: nel Paese ci sono persone in condizioni spesso terminali che ricorrono alla cannabis terapeutica e dobbiamo ascoltare il loro grido di dolore. Per quanto riguarda i dettagli di quella normativa, ne discuteremo apertamente in aula”.
Ma le cose stanno davvero come dice il neoeletto leader dei 5 Stelle? Non proprio. L’aggancio delle norme proposte non è affatto alla sola necessità di uso terapeutico: il testo base prevede la possibilità di autocoltivazione per tutti fino a quattro piante di cannabis “femmina”, la diminuzione delle pene per i fatti di lieve entità con la differenziazione fra le sostanze “leggere” e quelle “pesanti”, e la cancellazione delle sanzioni amministrative (per esempio la sospensione della patente) per le persone che le usano. Per “compensare” questa apertura liberalizzante ci sono inasprimenti di pena per i reati legati alla cannabis (che da due a sei anni di carcere diventano da due a dieci) e in generale allo spaccio, o l’aggravante per la vendita ai minori che esclude a priori l’applicabilità del fatto di lieve entità. Tra gli obiettivi, secondo l’estensore del testo, oltre all’aiuto a chi ne ha bisogno per motivi di salute, “combattere lo spaccio ed il conseguente sottobosco criminale”, ma anche “rafforzare la protezione dei più giovani”.
Dicevamo che a giudicare dai primi giorni di raccolta firme per il referendum pro-cannabis, il tema non è affatto di nicchia fra gli elettori. E parrebbe azzardato sostenere, dopo decenni di crescente inasprimento dell’approccio proibizionistico-repressivo, che questo abbia condotto a grandi successi sul piano del contrasto in generale al consumo e alla diffusione delle droghe, pesanti o leggere che siano. Servirebbe quindi un dibattito serio e motivato sui contenuti. Ma chi avrà l’egemonia su questo dibattito? Se le forze che hanno votato il testo in commissione alla Camera non avranno il coraggio necessario a contrastare il messaggio, estremo ma estremamente semplice della destra (“droga è morte”), la proposta è destinata a finire, come si dice in parlamento, su un binario morto.
A meno di non credere al presidente dei senatori della Lega, Massimiliano Romeo, che parlando recentemente in aula a palazzo Madama di un altro argomento, ha lanciato un appello a “cercare tutti almeno di abbassare i toni”. Certo, parlava di vaccini e green pass, e rivendicava come sia “giusto e corretto dare spazio in parlamento anche a sensibilità diverse”, dopo le polemiche sul convegno organizzato proprio al Senato, grazie alla Lega, sulle cure per il Covid 19, da molti osservatori bollato come un’aperta legittimazione politica per i “no vax”. Però mai dire mai: dopo le elezioni amministrative, i partiti sono in genere un po’ meno ansiosi di “posizionamento” simbolico. E magari sulla cannabis Matteo Salvini, sensibilizzato dall’appello alla moderazione lanciato dal suo capogruppo al Senato, darà ragione a Enrico Letta. Il leader del Pd, qualche mese fa, a proposito della collaborazione con la Lega, disse: il rapporto “può essere positivo”. Ma si parlava del decreto imprese, tema sul quale, come si è visto nei primi mesi di governo Draghi, le distanze sono tutt’altro che incolmabili.