Una vittoria annunciata di Sala, magari addirittura al primo turno? Sala ha ampia notorietà, la macchina amministrativa milanese è rodata e generalmente efficiente. E poi c’è stata l’onda per preparare e gestire Expo, il successivo rimbalzo molto positivo, di cui la componente turistica è stata la parte più immediatamente visibile, una forte crescita di attenzione degli investitori globali, un più sicuro posizionamento di Milano sul versante ambientale, un intenso impegno per l’attrattività di studenti, operatori e professionisti stranieri, il rafforzamento dell’offerta di cultura, svago, sport. Ciliegina sulla torta, una skyline accattivante e nuova.
Il centrodestra appare svagato: un candidato sindaco trovato in extremis e piuttosto fuori ruolo; una campagna elettorale con argomenti da usato sicuro, ma usato a tal punto da apparire logoro; manifesti di liste e candidati senza il nome del candidato sindaco; finora nessuna proposta sui temi cruciali del futuro della città. I voti ci saranno, e non pochi, dato il radicamento storico a Milano: però nel 2016 Parisi appariva molto più competitivo, anche per il profilo personale, sicché – a oggi – il centrodestra sembra giocare nel campionato delle vecchie glorie. Nel momento in cui scriviamo, Forza Italia aspetta il sì di Galliani capolista, Meloni ha trovato il giovanotto Feltri, Salvini si è scandidato.
Eppure… C’è stato il Covid, ma che la pandemia avrebbe richiesto nuovi paradigmi capaci di cambiare sviluppo e organizzazione urbana, congestionanti e poco sostenibili, sembra non aver inciso su programmi urbanistici concepiti in tutt’altra fase. Per quanto riguarda il Piano nazionale di ripresa e resilienza, Milano ne ha atteso la definizione, ma certo non vi ha svolto quel ruolo di guida a cui avrebbe aspirato e a cui ambirebbe ancor più in futuro. C’è stata la “rivelazione” – tale per i troppi liberisti da cortile di cui l’Italia è piena, e Milano fucina – della necessità di un ruolo del pubblico più incisivo ed efficiente, a partire da una sanità da rivedere strategicamente e operativamente. Si è aperta l’enorme questione della ricostruzione delle filiere produttive e non solo dei servizi alle imprese.
L’elenco potrebbe essere più lungo, ma su questi temi non vi è discussione: ricerche e studi rimangono all’interno di circoli (per carità, autorevoli, socialmente e culturalmente motivati), il cui rapporto con la politica appare casuale ed episodico. Si vedono invece operatori economici, sviluppatori immobiliari, fondi di investimento, categorie economiche potenti e, tra queste, i commercianti più di tutti. I primi sono “all’attacco”, le loro proposte delineano un’idea di sviluppo in continuità: alta per qualità, moderna per conduzione, internazionalmente ben connessa. I secondi giocano invece “in difesa” di spazi e di ruoli, con argomenti anche intelligenti e fondati, come quello del valore sociale dei negozi di vicinato, ma miopi dinanzi alla debolezza economica messa brutalmente in luce dalla pandemia. Una sintesi ruvida ma sensata porterebbe a dire che il problema di Milano è che “grande” è ingombrante e da ripensare, mentre “piccolo” è debole e marginale.
La vera debolezza sta nel confronto pubblico: il modello politico amministrativo consolidato soffre sempre più la mancanza di luoghi e corpi intermedi attraverso cui il dibattito possa organizzarsi e svilupparsi, così da sostenere scelte e prospettive. Qui si colloca anche la crisi della sinistra, che ha cause sue proprie, ma è anche parte di un più ampio processo di decadimento della discussione pubblica. La destra pensa di poterne fare a meno, forte di un rapporto non episodico con settori economici e sociali strutturati e dotata di una rete comunicativa robusta. La sinistra ha un approccio diverso: appare talvolta consapevole che aderire alle scelte del governo locale, con una spruzzata di primarie, non è sufficiente per interpretare e rappresentare problemi sociali e insieme per proporre sviluppo sostenibile e innovazione di lungo periodo; ma pesano la debolezza degli impianti culturali, e l’assenza di luoghi e strumenti. Le idee hanno lasciato il posto a generiche dichiarazioni di valori, il radicamento sociale è ristretto alla (pur doverosa) attenzione agli ultimi, e dell’autonomia dei corpi e delle componenti sociali si parla nei libri di storia.
Dicono i dati che in Italia l’aumento del debito pubblico è grande quanto l’aumento del risparmio privato: che cosa vuol dire questo a Milano? Come pesa sui conti del Comune (e cioè sullo sviluppo dei servizi pubblici)? E cosa vuol dire per i cittadini in termini di distanze sociali, di bisogni soddisfatti o inevasi, di prospettiva e di futuro, non solo per i giovani ma per tutti?
Oltre che di programmi e contenuti, c’è un enorme problema di modalità e strumenti, perché si è logorato il tessuto democratico delle nostre città. Certo, la democrazia ha bisogno come l’aria di funzionare, di soddisfare bisogni, di promuovere sviluppo sociale: ma questo non si risolve con tecnici capaci (e comunque ce ne vorrebbero di più). C’è un campo che è quello della politica, della partecipazione, della chiamata all’impegno dei corpi sociali e dei cittadini. Occorrerebbe anzitutto mettere in moto processi di progettazione e gestione partecipati dei servizi, a partire – ecco la lezione della pandemia e la linea essenziale di una riforma che spetta alla Regione, ma da cui Milano non può ritrarsi, come spesso ha fatto, dietro lo schermo delle competenze – dai servizi assistenziali e sanitari alla persona. In secondo luogo, per i servizi a sostegno del mercato del lavoro, varrebbe la sfida sul campo, da parte delle organizzazioni sindacali, di un padronato che ha visto tempi migliori. Il grande patrimonio di solidarietà della città non può attendere oltre la progettazione di politiche di integrazione, che non possono essere divise tra italiani e immigrati.
Il tema della casa per i ceti non abbienti si lega strettamente a quello della sostenibilità, perché non vi è emergenza che possa portare a nuove compromissioni nell’uso del suolo: e la questione non riguarda più unicamente i ceti deboli, ma sempre più anche i ceti medi e le fasce “particolari” della popolazione, da chi vive solo a chi si è trasferito in città per ragioni di lavoro e di studio. Sarebbe ora che si studiassero strumenti in grado di mobilitare il risparmio privato – ampio e, come si è detto, in aumento – che non solo permetterebbe di reagire alla crisi della finanza pubblica ma arricchirebbe in termini di civismo.
Bene aver mutuato da Parigi l’idea della città in quindici minuti: ma bisogna essere consapevoli che ciò implica una radicale trasformazione della città prima nel suo cuore – cioè nell’equilibrio e nelle distanze sociali oggi accresciute – e poi nella sua immagine nel mondo, cioè nel rapporto tra la vita quotidiana e le grandi ragioni di attrattività. Un commentatore maligno ha detto che la città in quindici minuti c’era già – ed era il paese. Sta a tutta la collettività milanese fare sì che non sia un sogno retrogrado o magari soltanto uno slogan per una stagione elettorale.
Il risultato delle elezioni a Milano peserà nel dibattito politico per gli effetti che potrà avere sul quadro nazionale: tenuta o non tenuta del Pd, esito della scommessa sulla intesa democratica centrista, livello del consenso dei 5 Stelle (a Milano peraltro non particolarmente elevato nelle precedenti occasioni), livello del calo di Forza Italia, risultato del derby Salvini-Meloni. Nessuna traccia, comunque, della passione della campagna elettorale del 2011 (Pisapia versus Moratti) e nemmeno di quella del 2016 (Sala versus Parisi). Certo, siamo tutti più anziani di dieci anni, stiamo uscendo da venti mesi di pandemia pesanti per le relazioni sociali e pubbliche; non si sfugge però alla sensazione che la “buona amministrazione”, la “managerialità”, la “concretezza” non possano sostituire la politica. La personalizzazione e l’elezione diretta hanno probabilmente esaurito la loro fase positiva: sette candidati a sindaco sono la plastica dimostrazione di come il sistema politico continui a produrre confusione, e di come nei partiti prevalga la spinta a riprodurre se stessi, oppure a ripetere parole d’ordine puramente suggestive. Eppure molto si potrebbe fare: si sarebbe potuto fare prima – qualcuno dirà – costruendo iniziativa politica negli scorsi anni (ma non è successo), o almeno programmi partecipati (che non si sono visti), o ancora – ultima chiamata – provarci durante la campagna elettorale.