Bene hanno fatto il presidente Draghi e la ministra Cartabia a stigmatizzare gli episodi di violenza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, prima ancora di una sentenza dei giudici penali o dell’esito dei lavori di una commissione d’indagine interna. Hanno fatto bene ma non basta. Bisognerebbe allargare lo zoom delle indagini e delle proposte dalle carceri alle caserme dei carabinieri, ai reparti mobili della polizia, ai comportamenti dei singoli appartenenti alle forze dell’ordine.
Sia chiaro, l’Italia non è paragonabile agli Stati Uniti, dove l’esito di una azione violenta di un uomo o di una donna in divisa si traduce spesso nella morte del “sospettato”. Però ci sono troppi fatti, anche individuali, che dovrebbero imporre una attenta analisi e delle proposte innovative. Per dirla chiaramente, il governo dovrebbe convocare gli “stati generali della sicurezza” (dei cittadini), a rischio non solo per elementi esterni, criminali o eversivi, ma per i comportamenti delle stesse forze dell’ordine.
Parlare di questo, finora, è stato un tabù. Come se le “mele marce” fossero solo da buttare, isolare e allontanare, evitando così di interrogarsi sulle ragioni di fondo della violenza. Anche l’importante e positiva presa di posizione del premier Draghi e della guardasiglli Cartabia rischia di non produrre rotture con il passato, perché la contaminazione della violenza ha trovato un ispiratore e un padrino politico, la Lega di Matteo Salvini (e per certi versi anche Fratelli d’Italia della Meloni). Il leader del Carroccio ha strumentalizzato la polizia quando, da ministro dell’Interno, l’ha usata come se fosse una forza armata privata. Ha fatto sponda politica al sindacalismo conservatore di tutti i corpi che devono garantire la sicurezza – anche il Sappe, quello della Penitenziaria. Ha indossato divise e distintivi come se fosse un appartenente agli uomini della polizia o dei vigili del fuoco. Creando così “identificazione” e aspettative reciproche. Ha istigato ad armarsi per difendersi dai migranti. L’assessore leghista pistolero, ai domiciliari da una settimana, è figlio della cultura e della politica di Salvini, che infatti lo difende.
Se la politica dà questi segnali cosa ci dovremmo aspettare dai corpi di polizia? Facciamo un esempio. Il governo sta gestendo l’ondata di proteste contro il green pass. Medioevo e squadrismo fascista alimentano le proteste, che finora non sono degenerate. Se i manifestanti dovessero forzare le “zone rosse”, i palazzi delle istituzioni, a quel punto le forze dell’ordine dovrebbero intervenire. Che farebbe Salvini in questo caso? Flirterebbe con i manifestanti. Ma se i palazzi si trovassero in una situazione di rischio, il governo, il questore, dovrebbero dare l’ordine di liberare le vie e le piazze.
La cultura innovativa di cui abbiamo bisogno non è una gara sportiva per vedere chi vince. Le ferite del G8 sono ancora aperte. Il punto centrale, per quanto riguarda l’ordine pubblico, è la capacità delle forze di polizia di ridurre al minimo l’impatto, lo scontro con i manifestanti, anche quando questi decidono di forzare i divieti. Non c’è bisogno di ottenere una medaglia, serve che vinca la moderazione. La bravura dei dirigenti dell’ordine pubblico è quella di ridurre al minimo il danno.
Bisognerebbe dunque ricostruire un sentire comune tra i diversi apparati di sicurezza e fare scuola di formazione. Si rimane colpiti dal silenzio del comando generale dell’Arma dei carabinieri di fronte a condanne di suoi militari per torture o singoli episodi di violenza. Sarebbe un bel segnale di trasparenza se anche l’Arma prendesse posizione netta e chiara, ogniqualvolta un suo militare sia coinvolto in episodi di violenza o di tortura. La gestione della sicurezza delle carceri va garantita spiegando agli operatori che i detenuti sono cittadini a cui vanno garantiti i diritti. Sarebbe una gran bella notizia se nell’agenda del governo entrasse, magari in autunno, la convocazione degli “stati generali della sicurezza” (dei cittadini).